I 50 anni di Andre Agassi, l’uomo che amava la strega ma finì per sposare Biancaneve

I 50 anni del "Kid" di Las Vegas, uno dei tennisti più amati e controversi di tutti i tempi, forse l'ultima vera rockstar della racchetta, in uno straordinario ritratto del direttore Daniele Azzolini

Fin da bambino sono andato dietro alle donne sbagliate. Quando mia madre mi ha portato al cinema a vedere Biancaneve  tutti si sono innamorati di Biancaneve. Io della strega

(Woody Allen)

Bianco che più bianco non si può, Andre Agassi si presentò a Wimbledon come la pubblicità di un detersivo. C’erano state polemiche a Parigi, il presidente del tennis francese, Chatrier, lo aveva definito Cacatoà Fluo, lui di suo ci aveva messo la cresta mesciata, ma per lo sponsor era stato uno smacco. La risposta giunse ai Championships del mese successivo, era il 1992, con una mise altrettanto fluorescente, ma bianca. Il giorno della vittoria, la prima nello Slam, due mani pietose gli nascosero il chiodo di pelle nera. Temevano che lo avrebbe indossato sulla maglietta. Il parrucchino fu radunato in una coda di cavallo che gli sortiva da dietro il cappellino, e tutti convennero che sull’aria da coatto non fosse possibile intervenire.

Quando Andre fece le foto di rito, con la Coppa e la fidanzata, lei sì con il chiodo nero e tutta la chincaglieria più cafonal di Las Vegas, sembravano Anna e Marco della canzone di Lucio Dalla, i due che “con un’aria da commedia americana, sta finendo anche questa settimana”. Anna si chiamava Wendy Stewart, era l’amica di gioventù, e fu lei a bagnare di lacrime il primo trofeo. Non immaginava che quella vittoria avrebbe segnato la fine del loro rapporto, né che Andre Agassian, il figlio di Mike, ex pugile iraniano alle Olimpiadi e portiere di albergo, cui avevano trascritto male il cognome al momento del suo ingresso negli Stati Uniti, fosse avviato a diventare un divo dello star system americano. E sì, anche del tennis.

«Gioca come un maestro Zen». La frase è di Barbra Streysand, la bellissima fra le bruttine di Hollywood. La cantante comparve al fianco di Andre nel 1993. Lei 51 anni, lui 23, la differenza 28. Lo accompagnò a Wimbledon, e per il primo match indossò un cappello da nostromo. I media la presero in giro: Popeye Streysand tifa Bluto Agassi. Per il secondo match spuntò fuori un berretto da ufficiale della marina britannica. Il messaggio giunse forte e chiaro: una così, alla terza uscita, sarebbe stata capace di indossare lo zuccotto azzurro con la veletta sulla tre quarti uguale a quelli della Regina, e un pantalone con la scritta Royal Navy sulle terga.

Ma era Agassi a non essere più quello dell’anno prima. Ingrassato, anche il parrucchino mesciato sembrava “stretto di spalle” sul testone ormai pelato. Tennis e star system non sempre vanno d’accordo, nemmeno per un noto maestro Zen, in compenso garantiscono ottime conoscenze. Lasciata la Streysand (raccontano che la cantante impiegò due mesi per elaborare il lutto), Andre si affidò al fax per conquistare Brooke Shields, una frase d’amore a foglio, ventiquattro volte al giorno. Brooke pensò, o è matto o mi ama. Lei era la nipote di quel Frank Shields che fu finalista ai Nationals americani e a Wimbledon nei primi anni Trenta. Agassi non lo sapeva e quando glielo dissero fu chiaro che non gliene poteva fregare di meno. Fu un lungo fidanzamento. Anche Brooke amava farsi riconoscere. Non applaudiva, fischiava, si portava le dita alle incantevoli labbra e tirava giù bordate che avrebbero fatto impallidire mister Trapattoni. I due si sposarono il 19 aprile del 1997, e due anni dopo già si parlavano tramite avvocati.

Nei mesi trascorsi con Brooke, Agassi aveva quasi smesso di fare il tennista. Era stato numero uno la prima volta il 10 aprile del 1995, il suo mese. Nato povero il 29 aprile 1970 (sta per festeggiare i 50, dunque), è diventato ricco 25 anni dopo. Ma in quei giorni il problema non si poneva. Aveva infilato il precipizio e a novembre 1997 navigava intorno al numero 141 della classifica. La “cura” cominciò dai challenger, dove lui giungeva con l’aereo privato e spendeva d’albergo il doppio del montepremi. Ma l’esperienza servì a rimettersi in carreggiata, e la carriera tornò a splendere nel giugno del 1999 con il successo nel torneo che lo aveva sempre respinto, il Roland Garros. Lo vinse anche Steffi Graf e i due, fino a quel momento colleghi, trovarono modo di conoscersi meglio. Un invito a cena, un nuovo tentativo di Andre di rendersi simpatico a mezzo fax, subito rintuzzato da Fraulein Forehand che non aveva tempo da perdere, e molte rassicurazioni circa i suoi desideri di avere finalmente una famiglia vera, unita e felice, che invece fecero breccia nella corazza di Steffi, dove batteva un teutonico cuoricino da inguaribile romantica. Lei accettò di trasferirsi a Las Vegas, rimase incinta, lasciò il tennis. Si sposarono a casa Agassi, una villa all’incrocio di Agassi Street con Agassi Road (capita, quando si è ricchi abbastanza), alla presenza di due mamme e un prete. Era il 22 ottobre 2001 e quattro giorni dopo nacque Jaden Gil. Altri due anni e nel 2003 fu la volta di Jaz Elle.

Durerà poco, scrissero in tanti. Infatti… Andre e Steffi sono ancora sposati, hanno dato vita a una delle coppie più stabili e (a sentirli) innamorate che il tennis abbia mai avuto.

 

La mia compagna è una persona veramente immatura:  l’altro giorno, mentre facevo il bagno, è entrata e,  senza alcun motivo, mi ha affondato tutte le paperelle!

(Woody Allen)

La storia degli amori di Andre Agassi scorre con quella dei suoi risultati, segna i momenti propizi e i lunghi periodi in caduta libera, le rinascite e i nuovi smottamenti. Quattro compagne per quattro vite sportive, tutte vissute più o meno intensamente dal tennista più innovativo per tecnica di gioco e stile di vita comparso sulla scena dopo la metà degli anni Ottanta. Fino all’epilogo degli Us Open 2006, che appena l’anno prima l’avevano visto una volta di più in finale. Fu Steffi, con tata, carrozzina e figli al seguito, ad accompagnare Andre al passo d’addio. E per una volta, anche lei si commosse.

Al centro del grande catino di cemento intitolato ad Arthur Ashe, Andre uscì di scena contro B. Becker, un tedesco senza grandi pretese, appena 112 in classifica, con la B. che stava per Benjamin, né parente né amico del Becker quello vero, uno dei grandi rivali nel passato di Andre. Fin lì, in quel terzo turno, Agassi era giunto ancora da protagonista, nonostante un fisico ormai usurato dai molti anni di agonismo. L’insorgere di problemi alla schiena nel corso degli ultimi anni lo aveva obbligato a una stagione concentrata su pochissimi match: fu a Wimbledon, appena battuto da Nadal, che Andre annunciò il definitivo addio nel corso del successivo Slam, davanti al suo pubblico. Fu un torneo breve ma esaltante, nel quale Andre superò prima Pavel, poi Baghdatis prima di cedere a Becker (75 67 64 75), un match giocato in una straordinaria cornice di pubblico e concluso da una commovente standing ovation. In lacrime, Andre trasformò per l’ultima volta il suo stadio in una vasca ribollente di turbamenti e partecipazione, «una jacuzzi di emozioni» la definì dando fondo al miglior paragone che il suo repertorio letterario (accertato, è un long seller, ormai) potesse concedergli. Ma la strada era segnata, giocatori come Benjamin li aveva sempre battuti, ora lo mostravano al mondo fragile e caduco, in balia degli eventi. In un torneo di preparazione agli Open, a Washington, dove aveva sbancato cinque edizioni, aveva perso da Stoppini Andrea da Rovereto, numero 246. Era un segnale. E neanche dei migliori.

Sono seduto davanti alla TV quanto il telefono suona.  “Le piacerebbe essere l’uomo vodka di quest’anno?” Rispondo: “No, sono un artista e non faccio pubblicità, non sono un ruffiano, e non bevo vodka!”.  La voce: “Peccato, paghiamo 5 milioni di dollari…”.  E io: “Attenda in linea, per favore, le passo il signor Allen…”

(Woody Allen)

 

Il patrocinio di Steffi Graf, però, fu utile per affrontare l’ultima mutazione della sua vita. Apparso sulle scene con un travestimento giovanilistico da tennista punk di periferia, una frezza di capelli colorata di verde e pensierini latte e miele tipo «io dormo con la Bibbia sotto il cuscino»; camuffato poco più tardi da venditore ambulante multimediale al centro di frenetici spot all’insegna dello slogan “image is everything”, Andre Agassi è diventato col tempo un tennista pensante, capace di proporsi con autorevolezza ai suoi intervistatori, mille miglia lontano dal ritratto da inesausto protagonista di una vita da videogame in cui tutto sembrava correre oltre i limiti di velocità. E senza vigili pronti a multarlo.

Padre accorto di due bimbi da concorso, Andre affrontò l’ultimo passaggio della carriera con l’aura da gran saggio e l’autorevolezza di chi molto ha giocato, visto, guadagnato, vinto e sportivamente vissuto, ma chissà quanto intimamente felice e se del tutto immune dalle frustrazioni che l’uscita di scena gli avrebbe provocato.

Motivi per consolarsi ce n’erano. Andre, nel tennis, è stato davvero unico. Forse inarrivabile per qualità di gioco. Se è vero che un raffronto tra i grandi di ogni epoca possa avvenire solo in considerazione di quanto abbiano inciso nel tennis, Agassi merita di entrare a pieno titolo nella categoria degli innovatori, fra coloro che hanno giocato un tennis che prima non esisteva. Innovatore nei colpi e anche nei modi. I fondamentali spinti all’eccesso, il diritto paragonabile a un gran colpo di frusta, addirittura micidiale nella sua esecuzione da sinistra verso destra a uscire, il rovescio bimane secco e potente, l’anticipo naturale, hanno fatto da puntello, insieme con le vittorie, a una strategia promozionale e aziendale che non ha trascurato i minimi particolari e ha reso Andre prima un tennista trasgressivo, amatissimo dai giovani e al centro di attenzioni degne di una rock star, poi un volto pubblicitario di sicuro impatto, benvoluto dalle mamme, anche fuori dai confini americani. Mai nessun atleta prima di lui era stato oggetto di programmazione pubblicitaria, di studi da parte delle aziende, sostenuto da stuoli di uomini marketing. Nemmeno McEnroe. Forse Maria Sharapova…

 

Il vantaggio di essere intelligenti  è che si può sempre fare gli imbecilli, mentre il contrario è del tutto impossibile

(Woody Allen)

 

Fosse stato tipo da accontentarsi, avrebbe accettato di ritirarsi nel 2005, appena battuto da Federer nella finale degli Us Open. Trentacinquenne, si fece largo fra i ragazzi che già da un pezzo avrebbero dovuto soppiantarlo, Roddick, Blake, Ginepri, per lanciare l’ultima sfida al Migliore. E fu straordinario per un set e mezzo, spinse ogni appassionato a chiedersi che cosa sarebbe stata, quella sfida, se si fosse giocata davvero alla pari. Era, quella considerazione, il massimo cui aspirare, certo non la vittoria. Sostenuto in panca dalla signora Steffi, dal piccolo Jaden Gil, dal grosso Gil Reyes il preparatore e dall’amico Darren Cahill il coach, ci si può interrogare anche su come sarebbe stato questo finale di carriera se fosse proseguito il rapporto con Brad Gilbert.

A quel connubio, di fatto, appartengono gli anni luminosi della carriera agassiana. Chi l’avrebbe detto, con due tipi simili? Sembrava un binomio scellerato. Agassi era negli anni della piena, svolazzante sindrome di Peter Pan, si rifiutava di crescere e viveva da star. Fu lui a pretendere che le strade di fianco alla villa acquistata a Las Vegas si chiamassero col suo nome e riuscì persino a comprarsi un jet, convinto che così avrebbe risparmiato sul costo dei biglietti. Gilbert era il suo opposto più pericoloso. In campo usava trucchi da avanspettacolo, fingeva di star male per impietosire gli avversari, e per guadagnare un punto contestato era capace di piangere come una mezza dozzina di prefiche a un funerale. Eppure, quando Andre al termine della stagione 1997 si ritrovò al numero 141 della classifica (era il 10 novembre), infelice di sé più ancora che del rapporto ormai esauritosi con Brooke Shields, fu Gilbert a sospingerlo nell’Operazione Riscossa. E a scanso di banalità, fu proprio lui a definirla così, con tanto di maiuscole.

Storia complessa quella del Revenant Andre Agassi. Quando vinse gli Australian Open (il primo dei quattro), nel 1995, aveva la pancetta e un aspetto da commendatore alla bell’e meglio dissimulato da una bandana sulla stempiatura. Pirata e commendatore, ma in qualche modo felice. Aveva finalmente messo da parte il parrucchino e cancellato un bel po’ delle finzioni costruite intorno alla sua vita. Completò la scalata alle prime posizioni nei mesi seguenti, fino a scalzare Sampras dal numero uno. Resistette sulla cima 30 settimane, sostenuto dalla nuova fiamma Brooke, che per incitarlo – oltre ai fischi alla Trapattoni – urlava come in trance improbabili incoraggiamenti: «Vai, Andre, prendi l’ascensore e sali in paradiso!». Tipi come Federer e Nadal sarebbero fuggiti ululando dalla vergogna, lui no, era di un’altra pasta, un vero “kid” di Las Vegas.

Difficile stabilire che cosa realmente accadde, a parte un problema al polso della mano destra. Certo è che su quelle frasi da doppio bourbon della Shields, il tennis di Agassi s’inabissò d’improvviso, precipitando nell’anonimato delle eliminazioni repentine. Un crollo inaudito, seppure inzuccherato dal matrimonio hollywoodiano.

Vi è dunque un “prima” e un “dopo” nella carriera di Agassi, e lo spartiacque è rappresentato da quel numero, il 141, e da quel nome, “Ugly” Brad. Quattro tranche separate, quattro carriere diverse. Eppure vincenti, e due di esse santificate dal primato in classifica. Il 10 aprile 1995 la prima volta, il 12 luglio 1999 la successiva. Agassi il flipper, il giovane campione senza grandi scrupoli morali (quanti buoni ingaggi traditi da ingloriose sconfitte al primo turno), il tennista tutto eccessi come da contratto, appartiene in toto alla prima fase. Era un Agassi meno amabile, meno genuino, sicuramente meno uomo di quello che venne dopo, ma per quelle contraddizioni su cui si fonda questa nostra società tutta apparenze, anche più vendibile e pubblicizzato.

Toccare il fondo lo ha aiutato. Andre è risalito, ma per farlo ha cambiato se stesso. L’ultima parte della carriera ha scoperto il campione maturo, l’ex ragazzo finalmente ragionevole, forte se non di cultura, di esperienze accumulate. Poi il marito, il padre, e così via. Latore di un messaggio, persino: quello che vuole la vita come un inseguirsi continuo di obiettivi da raggiungere.

Wimbledon e il Roland Garros, più ancora dello Slam di casa, sono stati i tornei che hanno certificato le virate vincenti. Quando nel 1992 Agassi vinse lo Slam sull’erba, era appena alla terza apparizione ai Championships in una carriera cominciata nel 1986, vincente dal 1987 (a Itaparica) e nel 1988 approdata al numero 3 della classifica mondiale. A Melbourne non aveva ancora messo piede. Ma l’impresa servì a spazzar via i dubbi che si erano addensati su Frezza Verde, a giudizio di molti destinato a un ruolo subalterno. Del resto, che altro pensare di un ragazzo di notevolissimi mezzi che in poco più di quattro stagioni aveva dilapidato due semifinali nel 1988 (a Parigi e agli Us Open), una nel 1989 (Us Open), due finali nel 1990 (Roland Garros e Us Open), un’altra finale nel 1991 (Roland Garros) e una semifinale anche nel 1992 (Roland Garros)? Wimbledon sembrava il torneo più lontano dai gusti e dalle doti tecniche di Agassi. Invece, come per incanto, tutto andò a posto, testa e colpi.

Era troppo? I soliti detrattori sottoscrissero la tesi. Di fatto, vi fu il contraccolpo. Dalla vittoria, per quasi tutto il 1994, Agassi non sembrò più lui, svagato e scadente. Si riprese agli Us Open di quell’anno, grazie a un buon torneo e una facile finale con Stich, e nel 1995 sperimentò per la prima volta gli Open d’Australia prevalendo su un Sampras in angoscia per la sorte del maestro Tim Gullikson ormai prossimo alla fine. Agganciò la testa della classifica con una nuova semifinale a Wimbledon e la seconda finale agli Us Open. Con il successo olimpico di Atlanta si esaurirono di fatto le prime tre parti della carriera di Agassi, ribattezzate “Wendy”, “Barbra” e Brooke”. Il 1997 fu da buttare, ma lì nacque il progetto di riscossa studiato da Gilbert. Non ebbe esiti immediati, la ripresa fu lenta. Furono il Roland Garros e la finale con Medvedev a rimetterlo in pista, proprio il torneo che gli aveva negato le prime gioie. Nell’arco di quel match Andre mostrò tutto di sé: incostante, supponente, preoccupato, pentito, orgoglioso, intelligente, ingegnoso, travolgente. Fu la rivincita su se stesso, la definitiva trasformazione dell’alieno in un uomo. E quella sera conobbe Steffi…

Avevo un buon rapporto con i miei genitori.  Mi picchiavano di rado. Anzi, una sola volta. Cominciarono a darmele il 23 dicembre del 1942 e smisero nel ’44, a primavera inoltrata (Woody Allen)

Andre Agassi ha vinto otto tornei del Grand Slam: Wimbledon, Parigi, due us Open, quattro Australian Open. Sessanta successi su 90 finali giocate (tra cui altre 7 finali Slam), una vittoria olimpica ad Atlanta, una a Roma (con una finale), una nel Master di fine anno, e due vittorie su tre finali in Coppa Davis. Nel 2009 è uscita la sua autobiografia, Open, scritta con il premio Pulitzer JR Moehringer. Una bella lettura, con molte concessioni al sensazionalismo utile alle vendite. Nel libro Agassi confessa un difficile rapporto con il padre, manesco e autoritario, di aver coperto la calvizie con un parrucchino, di aver fatto uso di metanfetamine nei momenti più difficili della carriera. È una verità nuda, cruda e spiacevole. Il problema è chissà se sia la verità.

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