John McEnroe, ovvero preferire Renoir al computer

Questo articolo proviene dal numero di marzo di OkTennis Magazine. Per leggere integralmente la rivista, clicca qui.

Ogni match meriterebbe di essere pensato
allo stesso modo di un pittore
davanti a una tela ancora candida

Comprava Picasso e Renoir. Aveva solo ventun anni. E non era ancora McEnroe, se mai un giorno lo sia diventato. Ancora oggi c’è chi sostiene che quel ragazzo che incantava il mondo e faceva incazzare gli inglesi, che dipingeva volée con tocchi talmente spicci e fuggevoli da ricordare le pennellate dei maestri impressionisti, fosse solo un pazzo che pensava di essere McEnroe.

Entità suprema, già allora, negli anni Ottanta. Ed erano solo gli inizi. Una divinità magrolina e in costante trambusto con se stessa, ma con pretese artistiche rivolte a tutto il mondo. E investimenti mirati. Pierre-Auguste Renoir era il preferito. Soldi spesi bene, i primi vinti agli US Open. E una visione dell’arte che coincideva con la sua. Applicabile al tennis, quanto meno. Uno sport che l’artista aveva dipinto nel 1895 ponendolo al centro di una natura alta e potente, il campo piccoletto, con gli alberi intorno a fare da spettatori interessati. Era un campo in erba. McEnroe avrà sognato di giocarci.

«L’arte dev’essere indescrivibile e inimitabile», diceva il maestro francese che dipinse oltre cinquemila tele. Quello era l’obiettivo tennistico di John. Raffigurare qualcosa d’indescrivibile. Di inimitabile. E di solitario, dati i presupposti. Après lui le deluge?

Qualcosa di simile, ma senza diluvi, e nemmeno acquazzoni. Semplicemente, un’esperienza tennistica non ripetibile. Chiusa dentro di lui ed estinta con il suo ritiro. Molti anni dopo, nel 1992. Sempre che non fosse spuntato, da qualche parte, un suo uguale. Non uno che lo ricordasse per un verso. Proprio uno uguale a lui in tutto e per tutto. Ma non è mai successo.

Ti trovi là in mezzo, tutto solo,
a combattere fino alla morte
sotto gli occhi di persone
che mangiano panini al formaggio

Gli anni Ottanta di Big Mac. Furono il centro della carriera di un ragazzo degli anni Settanta, che del nuovo decennio condivideva pochissimo. Non la musica. Lui suonava e suona il rock, negli Ottanta quello degli Zeppelin, oggi quello della moglie Patty Smyth, la guerriera, la leader indiscussa degli Scandal. Non il tennis, che osservava preoccupato.

«Oggi non si lascia niente al caso, tutto è computerizzato, studiato, dall’allenamento tecnico a quello fisico, dall’alimentazione agli schemi, alla programmazione dei punti e del rendimento», ebbe a dire anni dopo, ormai passato dalla racchetta alla cuffia da telecronista. «Ma non c’è più fantasia, non c’è personalità. E il tennis ne soffre… Anche quando arrivai io sembrava che tutti avessero il collo della camicia inamidato. Reagii tirando fuori la mia personalità. Chissà se fra un po’ arriverà qualcun altro, magari con idee diverse, ma in grado di fare altrettanto».

Parole datate duemila e due… Utili – più che a dettare un mesto giudizio sul futuro del tennis – a comprendere quelle sensazioni di straordinaria creatività che Mac portava con sé, ma anche di solitudine. Un campione senza eredi. Tanto più che qualcuno è arrivato, alla fine, a riempire il nostro sport della personalità che serviva, per quanto diversa da quella di McEnroe. Federer, l’anno dopo quello sfogo, il 2003. Poi Nadal.

E John è stato uno dei cantori in diretta delle loro gesta, riconoscendone i meriti e i talenti infiniti. Lui che quella parola, talento, se l’era giocata come un dardo per trapassare la lorica impenetrabile di Ivan Lendl, il nemico insopportabile della seconda metà del suo mandato agonistico. «Ho più talento io nel mignolo della mia mano, di quanto ne abbia Lendl in tutto il suo corpo». Sul campo vinceva Ivan, 21 a 15. A parole Mac non aveva eguali.

Non importa se vinci o perdi,
fino a quando non perdi davvero

In quel 1980 reso indimenticabile da un tie break di 34 punti uno più bello dell’altro, che avvicinò di molto McEnroe al concetto stesso di imbattibilità, rappresentato in quegli anni da Borg e dalle sue cinque vittorie filate ai Championships, in molti collocano l’avvio dell’Era McEnroe. Ci sta. Ma anche no.

L’anno rappresentò un punto d’arrivo, eppure era facile immaginare che tutto dovesse ancora prendere forma definitiva. McEnroe raggiunse il numero uno sfilandolo a Borg. Gli riuscì a marzo, il 3, lo riconsegnò il 24. Sono passati quarant’anni.

La classifica premiava il gran finale del 1979, con dieci titoli vinti e il primo Us Open, un po’ fortunello, ma ottenuto a vent’anni appena, alla seconda stagione da professionista. Il ritiro di John Lloyd al terzo turno, poi di Eddie Dibbs nei quarti, lo sospinsero senza consumarlo. Il vero McEnroe lo si vide in semifinale (tre set a Connors) e nel match decisivo (tre set a Gerulaitis).

C’era stata anche la prima Davis, a San Francisco, contro una squadra italiana ancora in lacrime per la perdita del capitano, Bitti Bergamo.

John ne fu il protagonista.

Superò Panatta, fermò il match per scappare in tribuna quando il supertifoso Serafino decise di invadere il terreno da gioco (entrò ballonzolando, inciampò, cadde, pesava oltre duecento chili, venne chiamata una squadra di operai per rimuoverlo dal campo), poi inseguì negli spogliatoi l’amico Adriano per farsi mostrare come aveva fatto a bloccare sul piatto corde della racchetta una palla scagliata da un suo smash a distanza ravvicinata e a gioco fermo. Il giochetto di prestigio gli era piaciuto da matti e voleva impararlo al più presto.

Era un tipo agitato, Mac. E quasi sempre scontento. Cercava la perfezione. A Rage of Perfection, fu il titolo di un libro che lo raccontava. La rabbia e la perfezione, il combustibile e l’approdo finale.

Fu la vittoria a Memphis a consegnargli la poltrona più alta. Era la seconda dell’anno dopo Richmond, e c’era anche la finale di Filadelfia. Per riprendersela, Borg aveva risposto con il Pepsi Grand Slam a Boca Raton, il Wct di Salisbury e Nizza. Tredici match in fila, con vittorie su Connors, Vilas, Gerulaitis, Orantes, Nastase e Vijay Amritraj.

L’immagine della perfezione era ancora lontana da quel tipetto esile e incazzoso che nel breve volgere di pochi secondi strappava applausi e faceva raggrinzire la pelle degli spettatori per le frasi che gli uscivano dalla bocca. Borg, se non altro, ne dava un’interpretazione più solida. Quella di una perfezione bionda e distaccata dagli umani affanni. Una perfezione svedese.

Il 1980 quasi perfetto di Borg finì per trasmettere a McEnroe una sensazione d’incompiutezza che poco lo fece esultare per l’avvenuta conquista del numero uno. L’altro aveva ancora una marcia in più. Così sembrava… Era stato sconfitto per la prima volta in esibizione a Dusseldorf, Coppa delle Nazioni, ma per il primo kappaò nel circuito fu necessario attendere agosto, la Rogers Cup a Toronto. E per ritiro.

Eppure, quella corsa a due, spalla a spalla, finì per consumare lo svedese, per primo. Aveva tanto più da perdere, Bjorn, ma fece fatica soprattutto a rendersi conto che un rivale lo avesse ormai appaiato.

Fu come se in quel tie break nel quarto set a Wimbledon, che tutti pensavano cancellato dalla vittoria al quinto, Borg avesse inalato un virus potente, che prese a consumarlo da dentro. Prima lentamente, poi a morsi.

Battuto sull’erba per l’ultima volta, McEnroe superò il ghiacciolo svedese al quinto nella finale degli Us Open, la seconda che vinceva. Infine lo cancellò da quella del Masters. Borg mantenne per poche briciole la vetta della classifica a fine anno. Ma la perse a Wimbledon dell’anno dopo, insieme con il torneo. Era il 1981. E lì davvero tutti compresero che il tennis era passato nelle mani di Mac.

Borg non aveva più lo stesso fuoco.
Sembrava avesse
accettato di farsi sconfiggere da me

Anche Borg era un ragazzo degli anni Settanta. Aveva i capelli da rock star, e per trovare paragoni utili alle emozioni che spalmava sul pubblico di ragazzine urlanti, occorreva fare un passo nel decennio precedente.

Negli Ottanta dell’edonismo elevato a stile di vita, lui e McEnroe finirono per sentirsi fuori posto. Prevaleva in entrambi quell’ansia del cambiamento che fece da filo conduttore al decennio precedente. Il tennis offriva

un palcoscenico sperimentale alla recita quotidiana di molti e superbi attori, fra i quali Mac e Bjorn finirono per assumere il ruolo di autentici innovatori. Uno cambiò il gioco. L’altro lo rese teatro.

Borg imprimeva ai colpi rotazioni allora fuori da qualsiasi schema. Lo faceva colpendo la palla nella parte superiore, da maestro del top spin. La sfera subiva un’accelerazione in avanti e un innalzamento della traiettoria, al contempo anticipava la ricaduta. Si disse, a ragione, che Borg aveva allargato il campo da tennis. Una sua pallata sulla riga obbligava l’avversario a retrocedere di quattro metri buoni per recuperarla. McEnroe inseguiva ben altri estri, ma tutti proiettati in avanti, verso una rapida soluzione dello scambio. Tocchettava, smistava, accelerava d’improvviso e piombava a rete per volleare con naturale eccentricità, tenendo la racchetta fra le dita come un cucchiaino da the.

Le due finali a Wimbledon del 1980-81 furono al centro di una disputa finita nel mito. Borg vinse il primo confronto (e il suo quinto Championship) ma non riuscì a impedire a McEnroe di realizzare, anche nella sconfitta, l’impresa della  giornata, vincendo al 34° punto il tie break del quarto set, forse il più avvincente mai giocato. Due forme distanti di tennis che si saldarono in un insieme di straordinaria purezza. Borg si vide cancellare, uno a uno, 5 match point. Ma vinse al quinto (16 75 63 67 86), perché, disse, «ero ancora convinto di essere il più forte».

L’anno dopo quella convinzione non c’era più, e McEnroe si prese tutto. Borg finì battuto anche nella successiva finale degli Us Open e capì che non avrebbe più potuto governare il tennis come avrebbe voluto.

Come ho perso la finale del 1984 a Parigi?
Sono quindici anni che me lo chiedono.
Non so più cosa dire. Penso si sia trattato
di una distorsione spazio-temporale,
qualcosa sul tipo di Star Trek o roba simile

Distorsioni spazio-temporali. Fantascienza. Come farsi battere da un tipo che gli americani del tennis chiamavano chicken. Il pollo. Da noi sarebbe stato coniglio. Animale diverso, concetto uguale.

Ivan Lendl fu il secondo grande avversario di McEnroe, più di Connors, che John imparò presto a battere, salvo cedergli i Championships del 1982. A conti fatti, un orso, Bjorn, e un pollo, Ivan. E lui, in mezzo, Big Mac. Ce n’era di che avviare una campagna pubblicitaria per i fast food.

Fantascienza anche le tre sole sconfitte subite da McEnroe nella stagione che gli consegnò la sconfitta più devastante fra tutte. Tre sconfitte in 85 match. Una con Vijay Amritraj a Cincinnati. Un’altra con Henrik Sundstroem nella finale di Coppa Davis in Svezia. Ma la prima di tutte, contro di lui, Ivan Lendl. Dieci agosto 1984, finale del Roland Garros. «L’esperienza più dolorosa della mia vita nell’anno in cui sfiorai la perfezione». Mac conobbe i Campi Elisi del tennis, e si sentì precipitare all’inferno.

Di rado un match di tennis produsse effetti così sconquassanti nella vita di due giocatori: accadde qualcosa che solo nei film di fantascienza (appunto) è dato vedere, una sorta di mutazione che lasciò stremato e incerto il tennista che fin lì aveva dominato, e l’altro invece rinvigorito, quasi avesse succhiato la linfa vitale dell’avversario.

Nessuno accetterebbe di accusare Lendl di vampirismo, seppure il suo tennis abbia finito per prosciugare decine di avversari, ma da quell’incontro i due non furono più gli stessi.

Mac vinse ancora, tantissimo. Tredici trofei. E tornò a battere Lendl nella finale degli Us Open e in quella del Masters. Ma subì l’affronto della sconfitta a Parigi come una malattia debilitante. E dalla fine del 1984 non seppe più conquistare uno Slam.

Lendl invece, da grandissimo perdente (il pollo) divenne irresistibile, fino a instaurare una vera e propria dittatura.

In largo vantaggio (due set), McEnroe trovò il modo di distrarsi in una guerricciola da quattro soldi con un tecnico della tivvù. Dette in escandescenze, strappò gli auricolari al poveretto, inveì e dimenticò Lendl. Quando tornò a occuparsene i magnifici congegni del suo gioco si erano inceppati, mentre l’avversario, per quei misteriosi meccanismi che fanno la storia segreta di tanti avvenimenti sportivi, era rinsavito e aveva trovato nel lob un formidabile alleato. Il match si rovesciò (36 26 64 75 75) e Mac ancora oggi non se ne dà pace.

«È stata la peggiore sconfitta della mia vita, una sconfitta devastante: a volte ancora mi tiene sveglio la notte. Persino adesso è dura per me parlare di quel Roland Garros… Mi fa star male ripensare a quella partita, a cosa ho gettato via e a come sarebbe stata diversa la mia vita se avessi vinto. E so che sarà un dolore che mi porterò dietro per sempre».

«Avessi vinto», disse anni dopo a Panatta durante una cena, proprio a Parigi, incapace di dimenticare ma anche di non tornare almeno per un attimo su quel match, «lo avrei perfino incoraggiato. Una bella pacca sulla spalla e via. Gli avrei detto: non te la prendere Ivan, in fondo sei sempre il numero due».

La replica gli giunse in anni ancor più vicini ai nostri, tagliente come solo la lingua di Ivan sapeva essere. La raccontò lo stesso McEnroe, masticando amaro. «Aveva organizzato un evento dalle sue parti, nel Connecticut, e m’invitò a fare da voce fuori campo, in pratica da intrattenitore. Gli dissi volentieri di sì, fra l’altro la paga era buonissima. Quando arrivai, ci salutammo e per rompere il ghiaccio gli dissi: “Dì la verità, Ivan, non sai proprio fare a meno di me”. Mi guardò serio. “Non direi”, mi rispose, “ma sono sempre stato convinto che prima o poi avresti lavorato per me».

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