“Run! Run!” e altri momenti iconici del decennio WTA

Lungo excursus di momenti che hanno segnato il decennio WTA. La palma d'oro a Naomi Osaka e il suo gesto da leader verso Coco Gauff. Il punto più basso a Serena Williams (comunque protagonista di momenti positivi) nella sua follia allo US Open 2018.

Pochi giorni e diremo addio a un decennio che ha segnato il tennis femminile in diversi aspetti, lasciando traccia sia in termini di risultati e record battuti, sia in particolari momenti particolari positivi e negativi che sono stati affrontati.

Qui vogliamo ripercorrere il più possibile i vari episodi che possono essere espressioni, frasi, avvenimenti, qualcosa che tra qualche anno ancora potrà essere ricordato in maniera nitida.

IL PICCO: OSAKA LEADER

Quanto fatto la scorsa estate da Naomi Osaka a New York nei confronti di Coco Gauff è il perfetto esempio di cosa questo articolo rappresenti. Una ragazzina di 21 anni che ferma una di 15, sconfitta malamente e che in quel momento voleva solo scappare da tutto e da tutti, e Osaka che le ha fatto capire come in quel modo sarebbe stata molto più male del dovuto. Non c’era buonismo nella sua, solo darle un segnale che 25.000 persone erano lì per lei e tutti volevano elogiarla, facendole capire che in ogni caso quanto fatto fin lì era fuori dall’ordinario. E le sconfitte passano, pesanti o meno. Anche perché la vita di un tennista è paradossale: solo una persona a settimana è destinata a vincere.

“Mi è venuto d’istinto – dirà dopo il match la tennista giapponese – perché quando le ho stretto la mano ho visto che le stavano scendendo delle lacrime. Quelli mi ha fatto ricordare quanto fosse giovane”. Questo non vuol dire né che Osaka deve essere sempre così quando vincerà le partite, né che dobbiamo attenderci qualcosa di simile con regolarità. È stato un momento estemporaneo, nato dal momento e da apprezzare nella sua semplicità.

Tra l’altro, la scena è stata magnificamente ripresa dalle televisioni. Osaka, con la stessa grazia e gentilezza mostrata un anno prima su quello stesso campo durante la finale contro Serena Williams, convinceva Gauff a seguirla davanti al microfono.
“Piangerò”
“No, tu sei brava, sei fantastica. È meglio così piuttosto che andare a piangere sotto la doccia. Parla a queste persone, dì loro come ti senti”
Quando l’intervista è cominciata, in uno stadio gremito fino all’ultimo posto con un pubblico che non si controllava nelle urla e negli applausi due ragazzine giovanissime guidavano la scena. Mentre Gauff ringraziava Osaka, la telecamera staccava prima sul volto di Naomi che sembrava ancora incoraggiarla ad affrontare questo step e poi subito va a cercare lo sguardo di mamma Tamaki in tribuna. Dodici mesi prima sua figlia, in un momento di grande felicità mista a un atteggiamento scherzoso le urlava “I love you”, oggi quella stessa ragazzina in mezzo al campo mostrava una maturità propria di pochi, e nel suo sguardo c’era tutto l’orgoglio e l’amore possibile.

IL MOMENTO PIÙ BASSO: LA FOLLIA DI SERENA WILLIAMS

La travagliata finale di New York del 2018 passa alla storia come una delle partite più controverse e discusse, resa tale dalla follia di Serena Williams che a metà del secondo parziale ha cominciato ad aggredire verbalmente l’arbitro, costretto a infliggerle in tutto 3 warning e scatenando uno tsunami di polemiche gestito malissimo dalla giocatrice, dalla WTA, dall’ITF e dall’organizzazione del torneo.
Se qualcuno ha avuto la chance di leggere quanto scrivemmo già nelle prime ore successive all’episodio, capirà che non c’è alcun odio verso la statunitense. Tifo o meno, una persona capace di vincere 23 Slam (in singolare) andrebbe lodata a prescindere. E proprio per questo tutto ciò fa molto male: Serena ha perso la testa rompendo la sua racchetta e trovandosi con un punto di penalità. Dopo il primo warning, quello per il famoso coaching che lei ha sempre negato aver visto (mentre le telecamere sì), lei era andata a muso duro contro Carlos Ramos dicendogli che preferisce perdere piuttosto che barare. Quello che molti non ricordano, o non sanno, è che nel cambio campo successivo i due si sono parlati, con Ramos a dirle “lo so che non bari, ma purtroppo il regolamento è questo”. Serena, quasi facendo un passo indietro: “Ok, volevo però chiarire che io non sono una che bara”. E Ramos a chiudere: “Lo so, lo so”.
A maggior ragione quanto avvenuto poco dopo è impossibile da accettare, perché una racchetta lanciata a terra non comporta necessariamente un warning ma il distruggerla in quel modo sì, ed era automaticamente il secondo. Un tennista, maschio o femmina, sa che a quel punto deve fermarsi per non incappare in nuove punizioni. Serena invece ha perso lucidità e ha attaccato ancor più duramente Ramos dandogli del ladro e puntandogli il dito contro intimandogli di chiederle scusa, ricevendo un game di penalità e giocando in successione la carta del sessismo e del suo essere madre, che per una personalità come lei voleva dire scatenare una valanga di ripercussioni sull’arbitro: in quel momento erano bordate assordanti, il supervisor in campo e una cerimonia di premiazione con Ramos scortato fuori dalla security, il palco che tremava dai fischi assordanti (raccontava Chris Evert, presente in campo quella sera) e Osaka in lacrime, lei che aveva giocato una partita di rara qualità dal punto di vista mentale e che lì vedeva il suo giorno di gloria divenire un momento di grande amarezza.

ALCUNI DATI: LE PRIME VOLTE DI PAESI NUOVI

Osaka tra l’altro fa parte anche di una di quelle nazioni, il Giappone, che in questo decennio ha visto riscrivere la propria storia sportiva. Naomi è la prima nipponica di sempre a vincere un torneo come Indian Wells, a prendersi uno Slam e a diventare numero 1 del mondo (maschi e femmine). Allo stesso modo, hanno festeggiato la loro prima volta paesi come il Canada (con Bianca Andreescu), la Bielorussia (con Victoria Azarenka), la Danimarca (con Caroline Wozniacki), la Romania (con Simona Halep), la Cina (con Na Li), persino la Lettonia, portata in trionfo da Alona Ostapenko nell’incredibile Roland Garros del 2017. E infine l’Italia, con Francesca Schiavone prima (Roland Garros 2010) e Flavia Pennetta poi (US Open 2015) unite a Sara Errani e Roberta Vinci a scrivere le pagine più belle della nostra storia. Pennetta la prima top-10 di sempre, poi a ruota tutte le altre con anche la particolarità di un best ranking molto vicino l’un l’altra: Schiavone al n.4, Errani al n.5, Pennetta al n.6 e Vinci al n.7. Tutte in finale Slam sia in singolare che in doppio, Errani e Vinci che hanno completato assieme il Grande Slam in doppio.

I VOLI E I CROLLI

In positivo e in negativo abbiamo vari esempi da proporre. Di nuovo Serena Williams, straordinaria nel portarsi fino a 23 titoli Slam, vincerne 4 di fila tra US Open 2014 e Wimbledon 2015, arrivare a 2 vittorie dal completare il Grande Slam e cadere invece di fronte alla più improbabile delle carneadi. Nessuno, neppure la nostra Robertina, pensava di tramutarsi in colei che ha infranto i sogni di Serena di fronte a un pubblico e un torneo che ormai pregustava già l’impresa. Battere Vinci per sfidare Pennetta in finale, un totale di 12 vittorie su 12 nei precedenti con le due. Un’orchestra polifonica già pronta per il tributo nella cerimonia di sabato che invece non c’è stata, e il tennis di un’altra era di Roberta che per un giorno si è presa la scena contro una gigante di questo tempo.

Allo stesso modo Maria Sharapova, seppur con risvolti diversi, che su terra si sentiva “una mucca sul ghiaccio” e ha poi vinto due titoli a Parigi: nel 2012 e, soprattutto, nel 2014 battendo in un match di 3 ore Simona Halep. Tornata numero 1 WTA dopo l’intervento alla spalla che sembrava averne segnato la carriera a fine dello scorso decennio, che ha sempre trovato modo di rialzarsi dai tanti infortuni subiti e poi, per colpa di un errore, consegnatasi alla gogna nel caso del meldonium. A differenza di tanti, come riportano i documenti della WADA e poi del tribunale che ne ha giudicato il caso lei non ha neppure chiesto le controanalisi, portando ogni dato possibile per cercare di chiarire la propria posizione ed evitare la maxi-stangata. Come messo nero su bianco dai dati del processo, il meldonium non veniva assunto per rinforzare le prestazioni sportive, ma diverse domande sulla vicenda sono comunque irrisolte. E quel problema, al di là di tutto, le ha irrimediabilmente compromesso la carriera.

Chi invece ha fatto un percorso “contrario” è Petra Kvitova, prima vittima di un terribile agguato a casa sua dove rimase gravemente ferita a tutte le dita della mano sinistra, l’indice quasi del tutto staccatosi dal resto della mano, tutti i nervi lacerati e ricostruiti con un intervento chirurgico che ah del miracoloso, soprattutto perché la ceca è effettivamente riuscita a tornare in campo producendosi in uno dei rientri più forti, emozionanti e memorabili che si ricordino. Da fine maggio 2017 a fine maggio 2019 si contano 9 titoli in due anni, risalita fino al numero 2 del mondo e di nuovo in una finale Slam dopo 5 anni con la chance di prendersi il numero 1. Non c’è riuscita, ma questo percorso merita di essere tramandato, Kvitova di essere riconosciuta come una delle più grandi giocatrici almeno di questa epoca. E perché no, aggiungiamoci anche Serena, che a inizio del decennio venne ricoverata in ospedale per un’embolia polmonare e riuscì a tornare in campo. Non solo, ma a riprendersi il trono della WTA e a vincere in tutto 12 Slam.

UNA MADRE IN CIMA AL MONDO

Il rientro di Serena dalla maternità ha creato un po’ di scombussolamenti nel circuito femminile. Al di là del clamore mediatico proprio di chi può considerevolmente ritenersi una delle più forti atlete di sempre (non solo nel tennis, dunque), la federazione ha cambiato le regole per quanto riguarda le tenniste che vogliono riprendere la carriera una volta divenute madri. Il concetto che Serena ha spesso rimarcato è chiaro: se sono numero 1 quando lascio, non capisco perché devo ripartire dal basso e riconquistarmi tutto (con allora anche il problema del ranking protetto come unico appiglio in caso non ci fossero wild-card). Situazione spinosa: tecnicamente sei numero 1 perché nelle 52 settimane prima, non nella carriera, hai raggiunto più punti di tutti. È meritocrazia fino a un certo punto. Puoi vincere uno Slam e un paio di tornei importanti e comunque non avere abbastanza punti rispetto ad altre che magari hanno più piazzamenti ma non la stessa quantità di trofei “pesanti”.

Eppure il suo non è l’unico caso di tennista di grandissimo spessore rientrata alla grande dopo una gravidanza: il caso di Kim Clijsters è l’esempio probabilmente regina. C’è stata una madre in cima al ranking in questo decennio, perché seppur per una sola settimana la belga è riuscita a riportarsi lassù. È rientrata a fine del 2009 e in tre settimane vinceva lo US Open. Un anno più tardi bissava il titolo a New York per poi imporsi anche in Australia (per la prima volta in carriera) a inizio 2011. Il 14 febbraio 2011 tornava numero 1 del mondo chiudendo il cerchio nel rientro più importante per una neo-mamma dimostrando che una come lei può fare tutto. E sarà da vedere ora che cosa succederà nel suo nuovo tentativo di rientro.

LA SPALLATA

Sharapova e Victoria Azarenka non si sono mai cercate, figuriamoci se possono essersi volute bene. Un astio nato probabilmente dal concetto di competizione, nervi tesi, volontà di primeggiare a qualunque costo. A Stoccarda nella finale del 2012 vinta dalla russa contro una bielorussa che dava segnali di fastidio alla spalla. Il momento iconico è stato a un cambio campo quando le due sono passate vicine. Così vicine da darsi una spallata di cattiveria e andarsene l’una per la sua strada senza curarsi minimamente dell’altra.

Sharapova è forse l’unica tra le due che è parsa avere una reazione, scuotendo la testa un paio di volte. Lei stessa che poi nella premiazione in campo dirà in tono abbastanza sarcastico come fosse dispiaciuta che quel giorno la sua avversaria fosse stata limitata da “un così grave infortunio”. Qualcuno, nel 2015, chiese ad Azarenka che cosa avesse di speciale Sharapova (l’argomento era “la superiorità negli scontri diretti”, ma questa parte rimase sottintesa) e Vika, cercando di non esplodere rispose con un mezzo sorriso: “Lo dovete chiedere ai suoi genitori, non a me”.

PERSONAGGI: LI NA, UN DISCORSO, E 116 MILIONI DI CINESI

Grandissimo volto di questo decennio, Na Li è diventata la prima cinese a vincere un titolo Slam proprio nel periodo in cui la WTA cercava di spostare parte del suo baricentro verso l’Oriente, attratta dalle opportunità concesse (leggasi anche “gli aiuti dagli sponsor disposti a investire”) e dai tanti soldi proposti, che per un’azienda che ragiona di anno in anno sui bilanci non può che incidere.

Li è stata una vera pioniera. Abbastanza spiritosa, dal carattere forte e dal rovescio che filava con una fluidità da lasciare a bocca aperta. Protagonista in campo quanto fuori, nel proprio finale di carriera ha trovato picchi di risultati che l’hanno trasformata da grandissima giocatrice a leggenda del proprio paese. La prima vittoria in un Major è stata poi indimenticabile per tantissimi motivi.

Il dato positivo: 116 milioni di cinesi erano collegati quel giorno per vederla affrontare Schiavone, quasi un decimo della popolazione di allora. Quasi due volte l’intera popolazione italiana.
Il dato negativo: non sua mamma. La relazione di Li con la madre, soprattutto da quando ha cominciato la propria vita da tennista, non è mai stata semplice. Anzi, alla lunga il rapporto si è completamente deteriorato e mentre la figlia godeva dei trionfi e dei riconoscimenti lei quasi si disinteressava. La stessa cinese raccontò poche settimane dopo il titolo al Roland Garros che nei giorni successivi le aveva mandato un messaggio dicendole che avrebbe passato qualche giorno a Monte Carlo e che per il resto andava tutto bene. La madre rispose: “Ok. Ah, ho saputo che hai vinto un torneo di recente”.
Sua figlia era entrata nella storia dello sport nazionale dalla porta principale.

Nel 2014, quando al terzo tentativo finalmente riusciva a vincere l’Australian Open (perse le finali del 2011 e del 2013), propose uno dei discorsi di premiazione più divertenti che si ricordino. Per prima persona ha ringraziato il proprio agente (Max Eisenbud, lo stesso di vari atleti IMG tra cui Sharapova): “Max, il mio agente. Mi hai reso ricca. Grazie!”. Poi il fisioterapista togliendoli ancora una volte, se ci fosse mai stato il bisogno, la colpa per le cadute (2) avute nella finale del 2013: “Non è colpa tua, è colpa mia” (un anno prima si diede della stupida). Passarono le persone e alla fine è cominciato il vero show: “Okay, ora sicuro (come a dire “eh, ora tocca farlo davvero”): mio marito. Sei molto famoso in Cina (e qui già il marito comincia a piangere dalle risate)“. Alla fine: “Dunque grazie mille. Sei davvero un ragazzo carino (col tono di chi era talmente impressionata come se l’avesse conosciuto la sera prima) E (urlato, come a ribadire se stessa e il suo ruolo) ricordati che sei molto fortunato, hai trovato me”. Meravigliosa:

Abbastanza simile, in questo, al celebre discorso fatto da Osaka a Indian Wells nel 2018, che ritrae perfettamente il carattere di una giocatrice forte, fortissima, ma sempre un po’ svampita, molto timida e che soprattutto agli inizi della carriera non aveva mai fatto dei discorsi il suo cavallo di battaglia: “Ehm, ciao (ride)… ehm… Sono Naom… no lasciamo perdere”.

I PRE E POST MATCH. QUELLI BELLI

Sempre allo US Open, stavolta però nelle edizioni 2015 e 2017, si sono avuti i post match migliori al termine di due finali Slam. Prima Vinci e Pennetta sedute l’una accanto all’altra, come due ragazze che hanno appena finito di allenarsi assieme e stanno mettendosi d’accordo su dove andare a mangiare più tardi, poi Madison Keys e Sloane Stephens, accomunate in quel caso non solo da una grande amicizia ma anche da un destino sostanzialmente simile. Se di Vinci e Pennetta sappiamo bene come abbiamo praticamente vissuto una carriera assieme fin da quando erano piccole (e lì Flavia le aveva appena comunicato l’intenzione di ritirarsi), Keys e Stephens abitano a 20 minuti di macchina l’una dall’altra e in quel 2017 una veniva da due interventi al polso (Madison) e l’altra rientrava a Wimbledon dopo 9 mesi di stop. Una non riusciva a tenere in mano la racchetta senza provare fitte di dolore, l’altra aveva dovuto riabituarsi a camminare. A metà settembre erano l’una contro l’altra nell’ultimo atto dello US Open.

Vinse Stephens, nettamente, e Keys tenne nascosto il più possibile uno stiramento al polpaccio sopraggiunto nei primi game per non “rovinare” la festa all’avversaria. Alla fine, una accanto all’altra in attesa di essere chiamate sul palco a celebrare un momento importante per entrambe, malgrado gli umori non potevano che essere diversi.

Non è un post match, ma Serena Williams ha giocato un ruolo chiave anche in questa categoria. Il suo ritorno a Indian Wells dopo 15 anni di boicottaggio è stato un momento di rara emozione, soprattutto a viverlo sul campo assieme a oltre 10.000 spettatori che trasmettevano un’energia spaventosa. Serena era quasi in lacrime già mentre camminava verso la sua panchina. Fino a pochi secondi prima un silenzio quasi irreale veniva rotto solo dal presentatore Andrew Krasny che ne annunciava passo per passo l’avvicinamento. Migliaia di persone in piedi, alcuni a saltare dall’emozione, altri a sventolare cartelloni. Un bambino, in particolare, cercava di farsi notare con un cartellone e la scritta “Straight Outta Compton”. Inquadrato, non è più riuscito a star fermo. In sottofondo, i Black Eyed Peas con “Tonight is gonna be a good night”. La sorella Isha, in tribuna accanto a Patrick Mouratoglou e alla manager Jill Smoller, in lacrime.

Pochi anni dopo, sempre a Indian Wells, il ritorno dalla maternità. Il marito creò 4 cartelloni pubblicitari sulla strada che da Los Angeles conduce a Palm Springs per celebrarne l’evento.  E per uno scherzo del destino il secondo match l’ha vista immediatamente contro sua sorella. La storia tra Venus e Serena è fatta di sfide non particolarmente “dure” dal punto di vista agonistico, ma sarebbe molto difficile per chiunque fronteggiare con la stessa cattiveria agonistica un fratello o una sorella. Quella volta, tutte le vicende che ruotano attorno a loro due sono state enfatizzate ed esplose come in un’eruzione vulcanica. La storia delle due, i momenti trascorsi assieme al padre Richard da bambine nei campetti di Compton sempre con gli zaini in spalla per scappare appena sentivano colpi di pistola frequenti in uno dei borghi più malfamati degli USA, come si siano prese entrambe la ribalta segnando fortemente l’era moderna del tennis, sport tradizionalmente per bianchi e benestanti.

La partita ha detto abbastanza poco, con Venus vincente, ma vivere le ore prima di quel match voleva dire essere a pieno contatto con un popolo festoso, carico di gioia ed emozioni. Girare per l’Indian Wells Tennis Garden in quel pomeriggio sera voleva dire capire in che cosa Serena e Venus sono e rimarranno due monumenti per la società odierna tra famiglie di afro-americani che grazie a loro hanno trovato un’identità e la forza di prevalere. Lo abbiamo spiegato meglio in questo articolo.

IL TENNIS E LE SUE STAR. NON SOLO IN CAMPO

Momenti speciali sono arrivati anche via social, tramite alcuni dei personaggi più improbabilmente legati a questo sport e collegati a giocatrici non di primissimo richiamo. Kristyna Pliskova all’Australian Open del 2017 ha ricevuto un tweet niente meno che da Russell Crowe, Massimo Decimo Meridio il Gladiatore in persona:

Pochi mesi dopo Johanna Konta raggiungeva la prima semifinale a Wimbledon della carriera, prima donna britannica a riuscirci in 39 anni. Il fatto che sia stata celebrata da una divinità come Mick Jagger, beh, rende l’onore ancor più grande:

Infine, l’accoppiata più recente è quella che ha visto Karolina Muchova assieme all’amica Rebel Wilson. Le due si sono messe in contatto per la prima volta allo US Open 2018 quando lei ha saputo di essere l’attrice preferita di Muchova. Si sono trovate, e da quel momento non di rado Rebel si è fatta vedere nel box della ceca.

LE RIVALITÀ

Tra tutti i possibili abbinamenti, ne vogliamo uno in particolare: Sharapova contro Radwanska. I numeri sono quasi interamente dalla parte della russa, vero, ma le vicende nei loro confronti erano sempre intriganti. Allo US Open 2007 Maria era la campionessa in carica e ci fu una discreta polemica per l’atteggiamento di Aga in risposta, con lei che esibiva quello che oggi conosciamo come SABR ma al contrario: si portava molto avanti rispetto alla linea di fondo per forzare la battuta all’avversaria e quindi aumentare la chance di errore, per poi correre velocemente indietro quando lei doveva tenere d’occhio la palla per colpirla. Radwanska vinse quella partita 6-2 al terzo.

Anche qui, come con Azarenka, le due non si sono mai trovate. Con tanta differenza in potenza, Agnieszka cercava di replicare d’intelligenza e copertura del campo nel tentativo di allungare gli scambi e girarli alla prima occasione, o forzare il gratuito (o estraendo uno dei suoi celebri conigli dal cilindro). Così, sebbene Sharapova abbia prevalso 13 volte su 15, non era raro vederle arrivare al terzo set. Una di queste fu la maratona di Istanbul da cui prende il titolo questo articolo. Era un periodo in cui le WTA Finals cominciavano di martedì e si distribuivano su 3 partite al giorno fino al venerdì. Loro erano le ultime e prima Azarenka e Kerber andarono avanti per circa 3 ore in un 6-7(11) 7-6(2) 6-4 che è anche una delle sfide più belle del decennio. Si iniziava alle 17, scesero in campo verso mezzanotte.

Fu una battaglia tremenda, dura, fisica, molto dispendiosa e assolutamente snervante soprattutto per Sharapova, che continuava ad attaccare e a forzare una, due, tre, quattro volte in ogni scambio e quella palla le tornava sempre indietro. Letteralmente oltre il limite della sopportazione, verso le 2:40 del mattino stava cercando di prendersi un punto di grande importanza al servizio sul 3-4 30-30 al terzo set. La polacca, stoica, continuava a fare il suo e farlo più che bene. E all’ennesima palla che ritornava Sharapova ha potuto chiudere col dritto lasciandosi andare a un urlaccio: “Run! Run!”. “Corri! Corri!”. Non sarà stato elegante, ma diavolo se può essere comprensibile. Anche da qui, la frase in conferenza stampa riguardo a quel punto e se la colpa fosse del campo troppo lento: “Ogni campo è lento se hai le game di Radwanska”.

Un po’ più particolare invece la sua reazione nel confronto contro Ana Ivanovic a Cincinnati nel 2014. In un’altra rivalità molto accesa, la serba stava vivendo in quei mesi una seconda vita tennistica ed era tornata a giocare su livelli da top-5. Quella partita, a metà agosto, verrà anche ricordata per la grande rimonta della serba ma soprattutto per il gesto di Sharapova che, a metà del terzo set, cedeva con un doppio fallo il break di vantaggio e, distratta dall’avversaria che aveva avuto un mancamento poco prima e ha avuto bisogno di misurare la pressione, ha detto chiaramente: “Controllatele la pressione del sangue!”. Molto infastidita, soprattutto poi contro un’avversaria che sul finire della partita stava giocando molto meglio di lei e finì per imporsi 7-5 al set decisivo.

GLI SLAM MEMORABILI

Lo US Open 2015 è fuori classifica. Lo Slam in assoluto più bello del decennio con grandi partite fin dai primi turni, sorprese, scoperte, avvenimenti anomali e fuori dall’ordinario fin dal primo turno. Per cui cerchiamo altri 4 esempi.

Australian Open: 2019. Se la gioca da vicino col 2017, quello del nuovo Sister Act, e del 2018, quello della semifinale bellissima tra Halep e Kerber e della maratona tra Halep e Wozniacki, ma le fasi finali qui sono state nettamente migliori in ogni aspetto. Barty contro Sharapova, Halep contro Serena, Serena contro Pliskova, Osaka contro Pliskova, Osaka contro Kvitova. Tutte partite di grande livello, tese, incerte fino all’ultimo.
Roland Garros: 2014. La semifinale tra Sharapova e Bouchard e poi la finale tra Sharapova e Halep sono la perfetta chiusura di uno Slam cominciato con lo scossone di Garbine Muguruza che travolgeva Serena lasciandole 4 game.
Wimbledon: 2013. L’edizione più turbolenta è quella che ricorderemo tra 20 anni. Wimbledon fu stravolto da cima a fondo con quasi tutte le big incapaci anche solo di raggiungere i quarti di finale. Kirsten Flipkens ha lì battuto Petra Kvitova, la più credibile accreditata al titolo tra le ultime 8 rimaste prima di perdere contro Marion Bartoli, incredibilmente laureatasi campionessa con una finale dominata contro Sabine Lisicki, andata in tilt per la tensione dopo un percorso che l’aveva vista eliminare sia Serena che Radwanska.
US Open: 2012. Serena vinse quel torneo con una finale talmente bella e appassionante contro Azarenka (e il recupero da 3-5 nel terzo) che ha fatto dimenticare due settimane fin lì abbastanza tranquille.

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