Andreescu, “She the North”. Serena Williams, la crisi Slam ha radici ormai profonde

Nella giornata di Bianca Andreescu, che sulla scia dello slogan dei Toronto Raptors in NBA ("We the North") ha cominciato a costruire il suo futuro, tanti sono i pensieri sul nuovo fallimento di Serena Williams. E se questo rientro fosse stato, forse, sottovalutato?

Chissà cosa starà passando ora nella testa di Serena Williams. L’abbiamo vista disperarsi nei game all’inizio del secondo set contro Bianca Andreescu, lì dove nulla stava funzionando come lei sperava. C’erano tanti errori, ma molti dovuti alla frenesia di una partita dove non aveva il controllo, dove non riusciva a fare quello che voleva, e questo la stava tormentando.

È la quarta finale consecutiva, a livello Slam, dove non solo viene sconfitta, ma finisce per essere spazzata via dal campo. Non è mai stata abituata a questo, non può esserlo chi ha l’animo e la mentalità di essere qualcosa di speciale. A Parigi scherzava con la stampa riguardo alla tanta pressione che sente in campo: “È vero, ne ho sempre tanta addosso, ma è così che vuol dire essere essere Serena Williams”. Si specchia in se stessa, si vede dominante, si vede forte, si vede bella, si vede leggenda e al tempo stesso persona che ha sempre avuto un impatto determinante a livello sociale. Eppure, ora, le cose non stanno più funzionando.

Fino al 6-3 5-1 Serena non reagiva, anzi continuava a perdere lucidità, ad arrabbiarsi, a smarrirsi, ormai neppure più capace di alzare la testa. C’è voluto un momento in cui Andreescu ha forse cercato un tocco di troppo, quando sul 30-15 è andata per chiudere il punto con la smorzata quando aveva tutto il lungolinea pronto e da lì si è incastrata in uno scambio poi perso. Da lì Serena, con quello scatto e il recupero, ha cominciato a essere più libera di testa. Meno negatività, meno pensieri. Le giocava più sul rovescio, piano piano era risalita, ma a conti fatti non è neppure andata vicina a prendersi il set, tornando a giocare sul dritto della sua avversaria nel game sul 6-5.

È la quarta finale Slam consecutiva persa male, con parziali netti: 6-3 6-3, 6-2 6-4, 6-2 6-2, 6-3 7-5. Il rientro dalla maternità le sta costando circostanze che prima viveva solo di rado. Prima vinceva, vinceva e vinceva. Perdeva qualche volta, abbastanza raramente. Più o meno come adesso, perché 4 finali Slam in 7 tornei sono un ottimo bottino, ma come immaginiamo direbbe lei: “non possono esserlo per Serena Williams”. E come anticipavamo oggi nella preview: sta mancando qualcosa, che ormai viene lecito chiedersi se lo riavrà più. Da un anno a questa parte abbiamo analizzato le sconfitte pensando che fosse solo una questione di forma fisica e movimenti in campo. Il problema di tanto in tanto sembra verificarsi, ma effettivamente si era avvicinata a questo Slam con qualcosa in più, sparito poi nel momento chiave. Non è casuale succeda sempre lo stesso percorso: quando arriva in finale, ora, è perché vince partite senza mai essere testata. Poi nel momento clou le prestazioni crollano. Non può essere solo una questione di movimenti da ritrovare perché a 38 anni, e con un corpo comunque provato da varie vicissitudini non possono più essere tanto migliori di così, probabilmente. Eppure quel tennis esplosivo visto nelle tre partite tra ottavi e semifinale è sparito completamente.

Ieri sera, contro Andreescu, Serena si faceva aggredire dalla profondità di Bianca. Soffriva nelle palle centrali, dove non aveva tempo di spostarsi, e soffriva tanto sulle palle angolate dove a volte non partiva. Soprattutto, però, il gioco della canadese sembrava mirato a depotenziarla, farla colpire senza quell’aggressività che la porta normalmente a crescere in fiducia e forza. E vengono dubbi, domande, pensieri che forse non dovremmo realmente porci. Eppure, uno tra tutti ora è quasi spontaneo: e se questo rientro sia stato, in qualche modo, sottovalutato? Quando Serena ha lasciato il circuito era numero 1 del mondo, aveva appena vinto l’Australian Open, era a 23 titoli Slam e aveva già avuto una carriera in cui aveva vinto tutto. Non avrebbe avuto granché da chiedere, ancora, ma ha deciso di tornare praticamente solo per questo record: il titolo Slam numero 24, di Margaret Court.

È vero che parliamo di un record a cui nessuno da veramente credito, ma lei che è una vincente per natura deve sentire un fastidio come di una mosca al naso. E ha voluto tornare, convinta forse in cuor suo che vista la facilità con cui si imponeva prima sarebbe stato ben più facile risolvere la pratica. Invece, due anni dopo, siamo ancora lì. Con però quattro sconfitte, pesantissime, sul groppone e un digiuno Slam che sale così a 11. In conferenza stampa, ieri, raccontava di dover ancora capire come mai non riesce a essere “Serena” (inteso qui come “se stessa”) in queste situazioni. Noi possiamo immaginare ci sia una montagna di pressione in più rispetto a prima per tanti fattori, uno tra tutti l’orologio biologico che scorre inesorabile. Lei, che aveva dimostrato al mondo come fosse facile vincere Major in successione anche a 32, 33, 34 anni, ora che continua a trovare top players in buona condizione in finale lei si spegne. E quando ripartirà la caccia al titolo 24 (Australian Open) lei avrà quasi 38 anni e mezzo. Possibile, perché tutto è sempre possibile se ti chiami Serena Williams, ma ogni volta che manca diventa sempre più difficile recuperare terreno.

Dopo tanti anni di investimenti nel settore tennistico, invece, il Canada ha trovato la sua vera gemma. Andreescu, canadese di Mississagua, cittadina a 10 minuti in macchina da Toronto, nella periferia ovest. Figlia di genitori rumeni, vissuta sotto lo stemma della foglia d’acero. Lei è riuscita lì dove i suoi predecessori (Eugenie Bouchard e Milos Raonic) avevano fallito. Seguita in tribuna dall’ex capitano della squadra di Fed Cup Sylvaine Bruneau e dall’attuale capitano Heidi El Tabakh, è a oggi uno dei talenti più importanti. Il suo 2019 è quasi irreale, soprattutto considerando i 4 mesi di stop per l’infortunio alla spalla. Malgrado quello, il tris calato stasera pesa come un macigno sulla sua candidatura ad assoluta protagonista negli anni a venire: Indian Wells, Toronto e ora US Open. “She The North”, “Lei (è) il nord”, è come due giorni fa scriveva il giornalista del New York Times Christopher Clarey dopo la straordinaria vittoria in semifinale contro Belinda Bencic. Il termine come era prevedibile ha spopolato, e ricorda molto da vicino il “We The Norh”, “Noi (siamo) il nord”, usato dai Toronto Raptors come campagna promozionale di questi ultimi anni e divenuto hashtag di grande tendenza su Twitter ora che i Raptors stessi son divenuti la prima franchigia canadese a vincere la NBA. “She the North”, che potrebbe anche ricordare il “She (is the Queen of) the North”, la frase che i sudditi di Winterfell urlavano all’acclamazione di Sansa Stark come Regina del Nord, nella serie tv fantasy Game of Thrones (a un certo punto vi sembrerà un po’ un prodotto della Marvel: è normalissimo).

Qualcuno allo stadio aveva già i cartelli pronti. Lei nel frattempo vinceva il suo primo Slam della carriera e la reazione era piuttosto composta. Si è lasciata andare a qualche gesto di felicità quando ha incontrato l’abbraccio di tutto il team, ma pensare a chi è, e a come sta gestendo un periodo folle della sua vita, riesce veramente strano vederla così di ghiaccio, e in senso completamente positivo. D’altronde, “She the North”. E adesso è in corsa per due record: il più grande salto in stagione (cominciata al 155 del mondo nella prima settimana del 2019) e il numero 1 di fine anno, distante solo 700 punti nella Race, la classifica che da adesso e per le prossime 6 settimane avrà sempre più valore.

Dalla stessa categoria