I tempi di Federer, l’Highlander del tennis

A quasi 38 anni occorre avere riguardo di se stessi, e Roger Federer è stato il primo a riconvertire la sua azienda sul prodotto a lunga conservazione

Highlander ha i suoi tempi. Sei mesi, dice.

Si programmerà così, da ora in poi, non più sui lunghi periodi. A quasi 38 anni occorre avere riguardo di se stessi, e Roger Federer è stato il primo a riconvertire la sua azienda sul prodotto a lunga conservazione. Ha preteso che i suoi collaboratori fossero i più bravi in circolazione sul fronte ancora non del tutto esplorato dell’atleta “in là con l’età”, e loro sono diventati dei veri esperti. Si intuisce da come lo accudiscono. A lui, proprietario della società e insieme prodotto da mantenere sul mercato, il compito di interpretare il ruolo del “felice reperto”, sopravvissuto a tre epoche tennistiche.

La base delle sue vittorie continua a essere il lavoro di gruppo. Lo Staff. Il Team scelto con accuratezza fra amici di valore. Quanto valga in percentuale è difficile da stabilire, forse il 40 per cento, magari di più. Il resto ce lo mette lui, unico nel rivelare ancora emozioni da bambino di fronte alla vittoria. Anzi, alla vittoria numero 101… Unico anche nel non dare nulla per scontato, nel porgere il massimo rispetto agli avversari, nel giocare ancora un tennis che è una meraviglia.

Alla fine, il succo della sua immortalità tennistica sta tutto nei complimenti di John Isner, che in questa finale di Miami è stato battuto prima da Federer, poi da un problema alla pianta del piede che negli ultimi due game gli ha quasi impedito di muoversi. «Roger in questo torneo è stato il più forte. Ma potrei dirlo per tutta la sua carriera, è venti anni che è il più forte. Non so come faccia, ma so che sono stato fortunato a partecipare con lui agli stessi eventi. È stato insieme la nostra spina nel fianco, e l’obiettivo da raggiungere».

Dubai cento, Miami centouno… L’unico (fra uomini e donne) ad aver vinto due tornei in questi tre mesi di Tour 2019. Un ATP 500 e ora un “1000”, il ventottesimo della serie, il quarto a Miami, che lo ha visto in campo (come wild card) la prima volta nel 1999. Prima finale nel 2002 (persa contro Agassi), prima vittoria nel 2005 (al quinto, su Nadal), ripetuta nel 2006, poi ritrovata nel 2017 e nel 2019. Appuntamento al prossimo anno? «Forse», dice rivolto al pubblico che lo applaude.

Il problema (non per lui, ma per il tennis giovane) è che dopo un match sconclusionato, giocato in secondo turno contro Radu Albot, nel quale ha avuto «la sensazione di non saper più giocare», Federer ha infilato un partitone dietro l’altro, mostrandosi alla fine non solo il più in forma di tutti, ma anche il più rapido e il più resistente. Ha chiuso i dieci giorni del torneo nel nuovo stadio ricavato dall’impianto dei Miami Dolphins, senza sudare, e fra Dubai e Miami, ha respinto le pretese dei ragazzini di maggior talento in circolazione, prima Coric e Tsitsipas, poi Hurkacz a Indian Wells, quindi Shapovalov in Florida. E sempre in due set.

Finale vinta nel primo set. Subito break, poi altri due poco dopo, per chiudere 6-1 in 25 minuti. Secondo set più laborioso, grazie alla migliore tenuta di Isner al servizio, ma deciso dall’infortunio in cui è incorso il pivot (2,08) americano. Già macchinoso il suo, Isner si è trovato a zompettare negli ultimi due game su una gamba sola, mentre Federer gli concedeva l’onore delle armi evitando colpi troppo difficili.

Da aprile, terra rossa. Monte-Carlo il primo appuntamento che conta. Federer sarà a Madrid, poi giocherà Parigi. Intanto riguadagna il quarto posto. E Connors, con i suoi 109 trofei, è sempre più vicino.

Dalla stessa categoria