L’ultima Davis nella periferia del tennis

La Coppa Davis, quella vera, va in pensione: il commento del direttore Daniele Azzolini

L’ultima Davis si è giocata nella periferia del tennis. È nata a Boston 118 anni fa, è morta a Lille, in Francia, con i croati in festa, felici – almeno loro – di sollevare un trofeo reso unico dal lutto. Qualcosa rimarrà, in futuro? Continueranno a chiamarla Davis ma non sarà più la stessa cosa. Fra i tennisti, gente che va per le spicce, già la chiamano Piqué Cup, da Gerard Piqué, calciatore del Barcellona, campione del mondo di calcio, Ceo della Kosmos, marito della cantante Shakira. Decidete voi quale sia, per importanza, l’ordine dei suoi titoli… Del resto, le Coppe prendono il nome dai loro inventori e fondatori e la vecchia Insalatiera, la bowl d’argento nata in realtà per il punch (l’insalata è un’invenzione nostra e dei francesi) che ai primi del Novecento le mogli dei vincitori utilizzavano a turno a mo’ di cachepot per le loro piante da salotto, nacque dall’ispirazione di uno studente americano bravino nel tennis ma decisamente più a suo agio nell’inventare intrattenimenti, Dwight Davis.

 

Ventenne miliardario di St. Louis, studente a Boston, orfano, il giovane Dwight mise a punto il progetto e appose la sua firma. La Coppa, lanciata come sfida agli inglesi colonizzatori (anche nel tennis) e vissuta dai bostoniani con gli slanci di una secessione, nacque per mettere i puntini sulle “i”: voi avete inventato il tennis, forse, noi però vi battiamo. Si chiamava International Lawn Tennis Challenge Trophy, ma il progetto era firmato così: presented by Dwight Davis. Di tutte fu quest’ultima la parola che rimase impressa. Davis Cup dunque, e così sia… Una zuppiera pesante un accidente apparsa come progetto numero 414 nel catalogo di oggetti di lusso della Durgin Co. di Concord, scartata come regalo per il compleanno della regina d’Italia, e tornata invenduta alla bottega orafa nella quale era stata fusa, quella di Shreve, Crump & Low di Boston, dove finì per scovarla Davis. Gli piacque, l’acquistò. Se lo poteva permettere. Poi attese l’arrivo degli inglesi, che inviarono la squadra “B”, forse la “C”. Tennisti minori, i signori Gore, Roper Barrett e Black, ma con la stessa alterigia dei più forti. Si spazientirono perché trovarono solo un portaborse ad attenderli all’arrivo della motonave Campania, si sconvolsero nel vedere i campi rasati con forbici e coltello, si adontarono perché li fecero giocare sotto la pioggia e persero.

Sono passati 118 anni, e la Davis in questo lungo percorso ha fatto da architrave al tennis. Ne ha scritto un bel po’ di Storia, ne ha veicolato la cultura, l’ha sostenuto nei momenti difficili. Poi il professionismo l’ha via via corrosa, e i ripetuti “no” dei più forti l’hanno destabilizzata. Ma ha continuato a essere garanzia di interesse da parte del pubblico, di passione sincera, e di momenti tennistici a loro modo epici.

Lo è stata, ma senza esagerare, anche quest’ultima finale giocata secondo tradizione, tra Francia e Croazia. In realtà, i padroni di casa hanno dato il meglio di sé prima della finale, fra i pochi che si siano battuti fino all’ultimo perché il piano Piqué saltasse, sospinti da spettatori esigenti e da un grande capitano come Noah (anche lui all’ultima panchina, ora il suo posto andrà ad Amelie Mauresmo). Hanno fatto meno bene sul campo, ma non era l’anno dei francesi, lo si intuiva. Per la prima volta negli ultimi dieci anni, non c’è stato francese in grado di raggiungere un quarto di finale negli Slam. Crisi nera, o quasi. Anche nei ricambi: il primo “under” di Francia, Ugo Humbert, è rimasto fuori dalla Next Gen per una manciata di punti. I croati già sulla carta erano più forti, con Cilic numero 7 e Coric numero 12 nella classifica, mentre il primo dei francesi era Pouille numero 32. Il resto lo ha fatto il campo.

A noi, del signor Piqué e dei suoi titoli, interessa necessariamente quello di Ceo della Kosmos. È la sua società e ci ha messo i soldi (3 milioni di euro, il primo anno) per una nuova Davis stile campionato del mondo di calcio. Idea non nuova, ma quel che è peggio tirata su frettolosamente, mal collocata, e ancora poco chiara in certi passaggi. Sconcertante come la federazione internazionale (Itf) abbia potuto accettare una soluzione del genere (eh? come dite? i soldi? in effetti…). I primi due anni si giocheranno a Madrid, che offre campi (al coperto) e un testimonial importante come Nadal. Ma Rafa è rimasto l’unico a dire di sì, mentre tutti gli altri Top Ten hanno rifiutato il progetto, inserito a fine calendario, nell’ultima settimana di novembre, una delle due destinata alle vacanze dei top players, che a dicembre tornano ad allenarsi per l’inizio della nuova stagione. Esplicito il bocia Zverev… «Rinunciare alle Maldive per giocare una Davis così e cominciare male la stagione? Non se ne parla». C’è di più… Se è vero che il buon Piqué ha messo in palio parecchi dollari, non si capisce se questi andranno alle federazioni e da queste ai giocatori, o se siano stati divisi in parti già stabilite fra le une e gli altri. Piuttosto macchinosa appare anche l’organizzazione della settimana finale, con quattro nazioni esentate dalle qualificazioni (le semifinaliste dell’anno prima) e due wild card. In sei su diciotto, un terzo (una enormità) sono già finaliste: le altre faranno i doppi turni. Il primo è fissato a febbraio, appena terminati gli Australian Open. Ventiquattro squadre per dodici posti da finalista. All’Italia è toccata l’India, sull’erba. Il nuovo format prevede due singolari e un doppio, due set su tre, per un giorno di gioco in meno dei tre tradizionali. Addio battaglie epiche? Sì, addio anche a quelle.

Il problema più spinoso, però, è che una Davis così, nata per venire incontro ai giocatori e invece incapace di conquistarli, ha lasciato varchi appetibili alla concorrenza, che guarda un po’ è quella dei giocatori stessi e della loro Associazione, l’Atp. Subito, infatti, è giunta la contromossa, nella forma di un’Atp Cup che rispolvera i regolamenti della World Team Cup giocata fino a pochi anni fa a Dusseldorf, prima dello Slam parigino. L’Atp ha collegato tre piazze australiane, fra cui Brisbane, ha scelto una delle settimane precedenti l’Open d’Australia, e ha ammantato l’evento di soldi e punti Atp (che la Davis non garantisce). Una competizione a squadre che ai giocatori è piaciuta subito di più, e che farà da preparazione allo Slam. Partirà dal 2020. Confermate e sostenute dall’associazione anche la Hopman Cup a Perth, uomini e donne assieme, e la Laver Cup organizzata da Federer e dalla sua società di management in stile Ryder Cup di golf, diventata in due anni una macchina da soldi, con premi ai tennisti chiamati a rappresentare l’Europa e il Mondo assai vicini a quelli di uno Slam.

Troppa carne al fuoco, un mare di soldi e liti in vista. Forse l’ITF doveva riflettere più a lungo su un cambiamento così repentino e scegliere una soluzione più graduale. Forse l’Atp dovrebbe rinunciare a invadere il campo altrui. O forse no, e sarà un bene se dallo scontro sorgerà un tennis a guida unica e altamente professionale. Si vedrà. Ora c’è il Natale… Ma da gennaio la battaglia diventerà frontale e in campo aperto.

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