Cicak: “Pensare alla finale tra Pennetta e Vinci mi fa venire ancora la pelle d’oca”

Abbiamo intervistato Marija Cicak, che nel 2015 diresse la storica finale femminile dello US Open in un contesto altrettanto speciale: fu la prima volta che due arbitri donna diressero le finali di singolare dello stesso Slam. "Sono fortunata ad aver vissuto quel momento con Eva Asderaki".

Lei è Marija Cicak, croata, uno degli arbitri più esperti del circuito WTA. Lavora per la WTA, ma quando arrivano gli Slam si presta come tutti ad arbitrare sia partite femminili che maschili. Dunque eccola raccontare con un bel sorriso di quando rimase sulla sedia fino alle due e mezza per mattino per una sfida a New York tra Kei Nishikori e Milos Raonic (“È stata una gran partita, davvero una gran bella partita”). Ed era lei sulla sedia per la semifinale record di Wimbledon tra John Isner e Kevin Anderson.

Eppure, New York per lei è speciale per un altro motivo: la finale femminile dello US Open 2015 dove è stata selezionata assieme a Eva Asderaki (che si è occupata di quella maschile) come prime arbitri donna a dirigere entrambe le finali di singolare di uno Slam.

Ti ricordi quando hai cominciato ad arbitrare o quando hai cominciato a pensare a intraprendere questa carriera?
Non ricordo esattamente in che anno cominciai a pensarci, ma fu circa quando avevo 15 anni. In quel periodo giocavo a tennis, ero nel mio circolo tennis a Zagabria e il capo dei maestri, che era solito organizzare tornei satellite, una volta gli servivano persone che potessero arbitrare. Gli ho detto: “Io, posso farlo io”. Lui mi ha risposto: “Davvero? Ok, comunque devi passare un test di grado 1 nella scuola nazionale”. Io: “Benissimo, farò anche quello”. L’ho fatto, l’ho passato, e così ho potuto fare il mio primo torneo da arbitro a Veli Lošinj. Posto favoloso, te lo consiglio se non ci sei mai stato.

Avevo letto un’intervista che hai fatto per Strait Times nell’autunno del 2015 e mi sembrava di aver capito che sebbene a te il tennis piaccia da matti, tua mamma non la pensa proprio così. È vero?
Non è che non le piaccia il tennis, diciamo che non ha la stessa passione per guardare una partita per intero. Ma tutto sommato devo dire che negli ultimi 2 anni si sta facendo prendere sempre più.
La cosa più particolare di quella parte, però, era come raccontavi che a lei bastava sentire la tua voce per essere contenta, quasi senza fare caso all’incontro. È ancora così?
Ah sì, guarda, non è proprio cambiata. Persino oggi (giovedì 4 gennaio, nda) se la partita fosse stata programmata più tardi, lei si sarebbe alzata e avrebbe sicuramente acceso la tv solo per sentire la mia voce. È così.

L’ultimo step della vostra carriera, come grado di riconoscimento, è il Golden Badge. Che cosa ci vuole per ottenerlo?
Il Golden Badge è l’ultimo passo per noi arbitri, ma lo stesso vale per i chief-umpire e i supervisor. C’è bisogno di tanta esperienza in quel ruolo e tantissime partite arbitrate, tantissimi tornei frequentati… Ci vuole tempo, anni.
C’è un limite di partite da raggiungere, o di tornei, prima di poter fare richiesta?
No, non c’è una certa quota di partite o tornei da raggiungere, dipende dalle persone: se queste mostrano talento e potenziale, logicamente il tempo è minore rispetto a qualcun altro. Ci vuole tempo, come dicevo, per passare da zero ad avere un Golden Badge. Potrei anche dirti 15-20 anni, ma ci sono arbitri che anche dopo questo periodo non hanno il Golden Badge: non ci sono regole, ma serve tanta dedizione e duro lavoro giorno dopo giorno, come per gli atleti.

Noi conosciamo piuttosto bene la routine dei giocatori o delle giocatrici durante i vari tornei: arrivano fin dalla mattina, fanno il loro allenamento, si preparano per la partita, hanno conferenze e fisioterapia nel post-gara e poi tornano a casa, o in hotel. Per voi? Quando vi viene comunicato il programma del giorno?
Noi normalmente veniamo a saperlo la sera prima, alle volte anche la mattina del giorno stesso. La nostra routine è quasi uguale a quella dei giocatori: molti di noi alla mattina o alla sera vanno in palestra, fanno allenamento, spendiamo moltissimo tempo nell’impianto, nel luogo del torneo, perché abbiamo altri obblighi da rispettare oltre ad arbitrare le partite e tutto questo prende tempo. Alla sera torniamo a casa, o in hotel, qualcuno come dicevo va in palestra, qualcun altro va a cena fuori o cose simili… Non è molto diverso dai giocatori, anche se alla fine noi trascorriamo molto più tempo sul luogo del torneo. È forse meglio per noi: sappiamo prima quando dobbiamo arrivare e quando possiamo andare via.
C’è un limite di partite da arbitrare per giorno?
Non c’è un limite, ma è abbastanza insolito avere 3 partite da arbitrare. Può succedere, ma è raro. Dipende dal livello del torneo: cambia se sei a un Futures e capita una brutta giornata dal punto di vista del meteo, capita che magari prendi molte partite in un solo giorno… Ma comunque rimane un caso abbastanza isolato. 

Ti ricordi qual è stata la partita serale che hai arbitrato terminata più tardi?
Certo, US Open 2014: Kei Nishikori contro Milos Raonic. È finito alle 2:26 del mattino.
Come era l’atmosfera?
In quei casi sia io che i giocatori eravamo nella stessa situazione: loro devono giocare, io devo arbitrare, i coach devono rimanere svegli e supportare i loro giocatori… Comunque c’erano ancora degli spettatori, dai (risata, nda). È stata una gran partita, davvero una gran bella partita.

Essendo un arbitro di grande esperienza, quali sono per te i requisiti per essere anche un ottimo arbitro?
Beh, anzitutto bisogna vedere bene quello che succede (sorride, nda), scherzi a parte, bisogna rimanere lì con la testa e controllare sempre il gioco, bisogna diventare parte del match, essere nel match, questo almeno per quanto riguarda le cose in campo. Oltre a questo però ci sono altri dettagli al di fuori dei match: noi passiamo molto tempo assieme, e bisogna anche saper stare assieme. Molte cose che le persone non vedono. Ti dirò che fare l’arbitro alla fine mi ha dato molto più di quello che mi aspettassi: mi ha insegnato tante cose, che è fantastico, ma mi ha anche fatto conoscere tantissime persone, alcune di queste straordinarie. Mi ha fatto vedere diverse città, conoscere nuove culture, scoprire come vivono le persone in alcune parti del mondo, poter seguire tante partite, poter prendere decisioni giuste. Tante cose. Davvero, è incredibile.
Chi secondo te potrebbe, in questa nuova generazione con molti profili giovani, arrivare a questo livello? C’è qualche nome che ti viene in mente?
È vero, molti di loro sono giovani e veramente bravi. Alla fine però sta a loro vedere se riusciranno a farcela. È veramente simile, come discorso, ai giocatori considerati delle promesse.

Che cosa vuol dire, per te, sapere che una tua decisione potrebbe anche cambiare il corso della partita? Per noi, da fuori, ci sono tanti replay, c’è hawkeye, mentre voi avete una frazione di secondo per decidere. Cosa si vive in quel momento? Quanta pressione c’è?
È la stessa sensazione che può provare un giocatore che si ritrova ad avere match point o a salvare match point nel tie-break del set decisivo. Sospetto che chiunque di loro ti risponda: “No penso solo a concentrarmi per fare del mio meglio in quel punto”. Se poi iniziano i pensieri, allora subentrano i problemi. Dunque davvero alla fine abbiamo lo stesso principio: concentrazione sempre un punto dopo l’altro, un punto dopo l’altro, un punto dopo l’altro… Molte volte anche solo un rimbalzo dopo l’altro, un rimbalzo dopo l’altro. Non hai tempo per pensare, quello sì, ma devi sempre essere lì con la testa.

Siccome sei stata l’arbitro di una partita storica per noi italiani…
La finale dello US Open.
Esatto, proprio quella.
Bellissima emozione viverla in quel modo, sì.
Quel momento è stato speciale anche per te, perché assieme a Eva Asderaki siete state le prime donne ad arbitrare le finali di singolare maschile e femminile dello stesso torneo dello Slam. Cosa avete provato in quel fine settimana, sapendo il significato che c’era dietro quelle partite?
Per noi è stato qualcosa di speciale, senza dubbio. Lo definirei incredibile perché ho condiviso il momento con una delle mie migliori amiche. Io ero lì per il suo match, lei era lì per il mio. Mi considero una persona veramente fortunata se penso di aver avuto questa possibilità. La finale che ho diretto io è stata qualcosa che ancora non riesco a spiegare e mi fa venire la pelle d’oca: è stata un qualcosa di veramente forte da vivere e alla fine è stato così bello vedere come si comportavano, entrambe devono essere considerate vincitrici. Davvero, incredibile. È destinato a rimanere nella mia testa per sempre: è stato uno di quei match che ha mostrato veramente quali sono i valori dello sport. Due ragazze cresciute assieme, migliori amiche… No, è difficile da spiegare, veramente, ma mi sono veramente goduta il momento.

Il match che diresse Eva invece fu molto più complicato anche solo come atmosfera
Eh, sì, sì (sorride, nda)…
Eppure se la cavò veramente bene.
Sì, sì. Ma lei è stata fenomenale: era lì, era completamente concentrata. Alla fine penso non ci sia stato qualcosa di più semplice o più complicato per lei piuttosto che per me, perché in quel momento non pensi più di tanto: sei lì, sei parte dell’evento, sei concentrato a dare il meglio di te stesso.
E 6 overrule tutti impeccabili.
Sì sì, assolutamente perfetta.

Vi è capitato di discutere di quel momento?
Ci capita di parlare di alcune così, sì. Condividiamo idee, esperienze, ma siamo talmente tanto amiche che cerchiamo perlopiù di non parlare di tennis visto che occupa già un’enorme parte della nostra giornata.

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