La lezione di Simona Halep

Il ritratto migliore della perseveranza è il volto di una ragazza di quasi 27 anni che per arrivare ai traguardi più importanti della propria carriera è passata attraverso tante delusioni senza mai gettare la spugna.

Perseveranza, e un pizzico di testardaggine. Sono gli ingredienti base del capolavoro personale che è riuscita a compiere Simona Halep, prima numero 1 del mondo a imporsi in un torneo Slam da Serena Williams nel 2016 a Wimbledon. C’era voglia, da parte anche di tante giocatrici della WTA, di festeggiare una vittoria che speravano da tempo potesse arrivare. Perché la rumena lo meritava, e tante colleghe avevano cominciato a sperare in questo momento. Petra Kvitova per esempio le scrisse un messaggio in almeno un paio di circostanze sia dopo la sconfitta a Parigi che a Melbourne, continuando a sostenerla e dicendole che il suo momento doveva arrivare e che prima o poi sarebbe arrivato. Al di là di semplici luoghi comuni, come “più di chiunque altro”: possiamo accennare a quanto fosse negativo il suo record nelle finali, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, ma lei c’era. Sempre pronta a darsi una nuova chance, finendo poi per essere sempre dal lato sbagliato della rete, quello a cui il fato voltava le spalle.

Tutto deve essere stato fuorché semplice doversi guardare allo specchio, anche solo dopo la recente finale di Roma persa con un primo set dove ottenne solo 6 punti contro Elina Svitolina. Partite talmente negative, nel loro esito, che facevano piovere critiche continue, voci incontrollate su quanto fosse immeritevole di essere al comando della classifica mondiale. Tutto deve essere stato fuorché facile presentarsi alla stampa e rispondere alle domande dopo la debacle dello scorso anno al Roland Garros, da un lato la sconfitta peggiore (per ranking dell’avversaria e vantaggi dilapidati), o dopo la sconfitta in Australia a inizio anno, o a Roma, o a Pechino, o quando doveva commentare altri momenti bui della sua stagione.

Tutto deve essere stato fuorché agevole mettersi in testa che doveva cambiare diversi aspetti nel suo gioco perché nonostante il buon rendimento dopo il 2013, l’anno della sua esplosione sportiva, aveva bisogno di qualcosa in più per essere più padrona del campo lei che fisicamente non può competere contro atlete potenti come Serena Williams. Arrivò Darren Cahill, che si è calato da subito alla perfezione nella parte e ha portato Simona a diventare eroina nazionale, lei che era già popolare prima di raggiungere il numero 1 ma che ha portato decine di migliaia di connazionali in piazza per una giornata che passerà alla storia in tutta la Romania. Un popolo che l’ha sempre supportata e, che per voce di uno dei suoi ministri, stava per intraprendere una campagna di raccolta fondi per dare uno sponsor alla propria beniamina che a fine del 2017 si trovò anche senza sponsor.

Una numero 1 spogliata dei suoi abiti e senza alcun titolo che ne certificasse la propria posizione. Così era vista, Simona, all’inizio del 2018. Ci furono voci continue su come mai l’adidas avesse deciso di mollarla, la realtà è molto semplice e forse non tutti l’hanno compresa: la Romania non ha mercato che attira i grandi investimenti. Lo disse Victor Hanescu, ex giocatore rumeno, lo fece intendere un dietro le quinte su Svetlana Kunetosva datato ormai 10 anni fa: era il momento in cui il tennis femminile russo dominava la scena mondiale con 4/5 atlete nelle prime 15 e lei chiese spiegazioni al proprio manager su come mai le altre giocatrici di vertice stessero firmando contratti di alto livello, mentre di loro si “salvava” soltanto Maria Sharapova. La risposta, secondo la voce, fu lapidaria: “Perché siete russe, purtroppo non c’è mercato da voi”. Halep dovette convivere anche con questo prima di ufficializzare il contratto con la Nike, che ora si coccola una nuova campionessa Slam con sotto contratto alcuni tra i più grandi atleti di questo periodo. Prima, però, la delusione australiana.

Quel giorno possiamo garantire che erano tanti a sperare Halep riuscisse a chiudere il cerchio. Stava giocando forse meglio che in questo Roland Garros eppure fu diverse volte vicina alla sconfitta, ma proprio l’esserne sempre uscita vincitrice e giocando un tennis molto propositivo fin da inizio torneo (anche a causa di un problema alla caviglia), c’era forte la sensazione potesse essere il suo giorno. Così non fu. Altra delusione, altro fallimento, e la giostra che ripartiva con le solite domande: “Cosa ti è mancato? – Quando pensi arriverà il tuo momento?”. Le luci della gloria erano rivolte ancora a qualcun altra, lei spogliata anche dei panni di regina del ranking mondiale tornava nell’ombra con il solito pensiero fisso nella testa.

È stato un percorso a tappe veramente complicato, anche più di quando arrivò al numero 1. E si che anche lì le delusioni erano state tante, ravvicinate e una più pesante dell’altra. Dalla sconfitta a Parigi al quarto di finale perso a Wimbledon contro Johanna Konta, quando le mancarono appena 2 punti nel tie-break del secondo set e perse anche a causa di quella signora che urlò sul match point distraendola. Dalla finale di Cincinnati, dove rimediò un 6-1 6-0 contro Garbine Muguruza a quella rimonta subita qualche mese prima a Eastbourne contro Caroline Wozniacki quando conduceva 7-5 3-0 e servizio. Poi la sconfitta contro Maria Sharapova a New York, quella contro Daria Kasatkina a Wuhan. Infine le vittorie a Pechino una di seguito all’altra contro Sharapova, Kasatkina e Ostapenko per scalzare Muguruza dalla leadership.

Arrivata lassù lei ha sempre ripetuto che ormai essere numero 1, o 2, o 3 le cambiava poco. Una volta arrivata in cima bisognava alzare l’asticella e l’unico modo era dedicare anima e corpo a vincere il primo Slam, anche dovessero esserci volute 6 finali perse consecutivamente. Per alcuni era una debolezza, vederla arrivare sempre in fondo e perdere. Per altri era un simbolo di grande dedizione, perché dopo tutte le sconfitte passate lei non ha mai smesso un attimo di crederci, anche se i musi erano sempre più lunghi e quel pensiero fisso sarà diventato un fastidioso incubo ricorrente nelle ultime notti, mano a mano che il trofeo si avvicinava ma si avvicinava anche la finale, step che da Parigi dello scorso anno ha saputo completare appena una volta su 6, nel WTA International di Shenzhen. Ha cambiato tanto, è migliorata tantissimo nel cercare soluzioni vincenti e rischiare un po’ di più, come oggi quando è uscita dallo scambio sul delicatissimo 4-4 15-15 nel secondo set giocando un vincente in contropiede di rovescio che era tutto fuorché facile. Poi l’abbraccio, bellissimo, con Cahill che per tutti questi mesi non ha mai smesso un secondo di mostrarsi convinto che Halep potesse farcela, difendendola a spada tratta a più riprese e facendosi amare dai rumeni come pochi altri, spronando Simona a rialzarsi sempre, talvolta anche con le maniere forti quando lo scorso anno i due arrivarono a un passo dalla separazione dopo che lei lo aveva trattato male durante un cambio campo a Miami. La rumena ha capito che senza di lui forse non ce l’avrebbe fatta, o semplicemente che Darren è un elemento troppo importante per la sua carriera, lei che aveva deciso a fine 2016 di volerlo come coach fino a quando non deciderà di ritirarsi.

Non è stato facile, Andrea Petkovic lo ha espresso in un tweet: “Dovete capire che ogni persona ha un proprio percorso, non esiste un tempo uguale per tutti. Quelli che voi chiamate fallimenti sono solo step fondamentali che ognuno di noi è chiamato a fare prima di arrivare al traguardo”. Stan Wawrinka lo potrebbe esprimere con un tatuaggio: “Ever tried, ever failed. No matter. Fail again, fail better”. Simona Halep è questa, il carattere di Simona Halep è proprio qui. La lezione che ci ha insegnato oggi, ma in generale in tutti gli ultimi anni della sua carriera, è che può anche andare al tappeto innumerevoli occasioni, ma sarà sempre pronta a rialzarsi finché non sarà lei ad averla vinta.

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