Immenso Nadal, ma per favore: non chiamatela impresa

Nel meritato successo del maiorchino a New York non si possono dimenticare dei fattori che hanno di fatto molto, molto agevolato la sua conquista dello slam numero 16

Nadal ha fatto 16. Come da pronostico. Senza sbavature. Senza sorprese. Non ha tremato e non ha avuto pietà del povero Anderson, come di nessun altro degli avversari presentatisi a contendergli questo ultimo slam stagionale. Ha fatto suoi gli US Open con autorità e confermando di essere semplicemente il migliore del circuito, come testimonia quel numero 1 accanto al suo nome.

Ma a guardarlo bene di questo slam alla fine resterà solo il nome di un vincitore che non ha dovuto fare certo salti mortali per arrivare in fondo. Per quanto non possa non fare eco Nadal che torna a vincere uno slam al di fuori del rosso dopo 4 anni, vincere questo torneo non ha certo avuto del fantascientifico. Anzi, osservando i fattori è stato persino più facile rispetto alle due vittorie del passato a New York, che già di per sé non erano state delle vere e proprie odissee.

“Ecco i soliti federeriani rosiconi!” grideranno in molti. Ma come a Wimbledon e a Parigi prima, non possiamo coprirci gli occhi di fette di prosciutto e semplicemente dimenticare il “non torneo” al quale abbiamo appena finito di assistere.

Un torneo dove per la prima volta nella storia Open il vincitore non ha dovuto affrontare non solo neanche un top10 ma addirittura nemmeno un top25 del ranking. Un torneo dove per la prima volta fino alle semifinali non aveva affrontato nemmeno uno dei primi 50 in classifica. Numeri ancora più sottolineabili se si pensa che già ai blocchi di partenza mancavano già ben 5 dei “veri” top10.

Intendiamoci: come già detto in passato su questi schermi, anche Federer a Wimbledon non ha dovuto sudare sette camicie per portare a casa il suo ottavo titolo, in un torneo tutt’altro che da ricordare. Ma almeno lui due top10 li aveva battuti e 4 avversari su 7 erano top20.

Nadal, come se ne avesse avuto bisogno, ha approfittato di un tabellone in tutti i sensi da ATP250, trovandosi di fronte giocatori che di solito affronta ai primi due turni e che magari nel proseguo del torneo, davanti a lui sono arrivati appagati o inermi. L’unica vera partita sarebbe potuta essere quella con Del Potro, se non fosse che Juan Martín dopo il primo set era bollito e brasato dopo le fatiche contro Thiem e Federer e barcollava per il campo come un Estraneo di Game of Thrones.

Certo, i perdenti hanno sempre torto, gli assenti ancora di più. E di certo Rafa non ha alcuna colpa del fatto che i Dimitrov e i Berdych perdano malamente contro i Rublev e i Dolgopolov. Ma nel tennis, come la storia ci insegna, non vale la proprietà transitiva del “se A batte B e B batte C, allora A è più forte di C”… Se Rafa avesse potuto scegliere prima del torneo di sicuro avrebbe preferito un Rublev a un Dimitrov, per dirne una. Del resto lui stesso si era lasciato andare a un “Spero di non trovare Federer in semifinale”; detto fatto, Federer perde da Delpo e gli consegna un avversario alla frutta. Non che Federer potesse di più nelle condizioni in cui era, ma magari non avrebbe finito la benzina dopo un set, anche se non lo sapremo mai.

Insomma, da che mondo è mondo per vincere gli slam non ci vuole solo talento ma anche fortuna. E a New York a Nadal la fortuna diciamo che non volta proprio le spalle. Già nel 2010 e nel 2013 ricordiamo come dovette sudare praticamente solo in finale per alzare il trofeo. Anche se allora era un altro Nadal. Sì, perché quello che in molti dimenticano guardando i parziali con cui Rafa ha strapazzato i suoi avversari in questa edizione, è che questo Nadal ha dovuto semplicemente tirarsi a ridosso dei giudici di linea e giocare a ributtino per portare a casa ogni singolo match, aspettando che gli avversari si autodistruggessero di errori gratuiti. Non certo come il Nadal delle due cavalcate vittoriose precedenti. Ma a 31 anni e con il suo tennis dispendioso non potrebbe chiedere di meglio.

Il grande merito di Rafa resta indubbiamente quello di esserci, di dimostrarsi comunque il migliore e rimarcarlo rimettendo i vari “comprimari” al loro posto; e soprattutto di approfittare di queste occasioni, al contrario di molti suoi colleghi che ancora non riescono a emergere neanche nel nulla circostante (vedi Zverev e Kyrgios) o a fare il passo in più per vincere i tornei che contino davvero (vedi Dimitrov).

Ma non parlateci di impresa, per favore. Non oggi.

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