Federer, la voglia di n.1 e l’errore Montreal

Lo svizzero è arrivato fuori forma e claudicante a questo slam probabilmente per colpa della sua voglia di tornare in cima al mondo, forzando i tempi di recupero e preparazione

Non avremo mai la controprova e quindi, chiariamolo subito, queste sono poco più che opinioni buttate lì o ancora peggio delle congetture, ma dire che la preparazione e la scelte di programmazione dell’estate post Wimbledon di Federer non siano state delle più azzeccate, a naso, non è certo un’eresia.

Si è visto sia a Montreal, dove lo svizzero ha partecipato in fretta e furia, e si è visto soprattutto in questo Us Open, dove Federer non ha mai giocato nemmeno lontanamente a livello dei primi mesi di quest’anno e nemmeno a livello di Wimbledon, che già era sembrato decisamente più basso. Ha rischiato di essere eliminato già nei primi due turni (quinto set contro Tiafoe e Youzhny, dio mio, Youzhny), per poi vincere in scioltezza contro due giocatori che mai lo hanno battuto nella vita (letteralmente eh, non tanto per dire), e infine ha perso quando ha incontrato un osso duro come del Potro.

Che tutti pensavamo morto o giù di lì dopo le fatiche e la rimonta contro Thiem negli ottavi, e invece è riuscito a tirare fuori una bella prestazione. Non clamorosa, visto che dall’altra parte c’era l’ombra di Federer, ma ha comunque offerto degli spunti interessanti, come ad esempio il fatto di aver commesso solo un errore gratuito nel quarto set.

Detto ciò, lo Us Open di Federer, e forse chissà anche il finale di stagione, è stato probabilmente compromesso dalla sua umana, umanissima fame. Si è fatto ingolosire dal numero uno, da quella sfida con Nadal per il trono di racchette. Ha visto il ritorno alla vette ad un passo. Ha visto che la forma era buona, e che a Montreal c’era la possibilità di vincere. Ha deciso, preso dall’istinto e dal cuore, ed è andato in Canada. E’ pure arrivato in finale, ma poi si è fatto male.

Nulla di grave, ma niente Cincinnati, da sempre il suo “1000” preferito. In questo modo, non si è allenato bene e la preparazione allo Us Open (come lui stesso ha ammesso, anche se a denti stretti) è andata a farsi benedire. Si è presentato all’ultimo slam dell’anno lontano dai fasti di inizio anno, pagando dazio. Con dei dolorini qui e lì alla schiena che non lo hanno fatto giocare tranquillo. E si è visto al servizio e col rovescio, quasi mai tirato come Ljubo gli aveva “insegnato” a fare. E Federer è incapace, lo è quasi sempre stato, di giocare al suo livello se avverte la possibilità di farsi male. Non sa giocare sopra il dolore.

Si, vero: si poteva far male ovunque. Si poteva fare male a Cincinnati, in allenamento o in altre parti, come a Montreal. Federer però ci ha insegnato come l’arte del riposo, per un tennista di quel livello a 36 anni, è essenziale. Aveva fatto, mossa astutissima, benissimo a saltare l’inter stagione sulla terra per presentarsi poi a Wimbledon, vero obiettivo stagionale, tirato a lucido come non mai. A Montreal ha accelerato la preparazione, semplicemente. Voleva quel n.1 (e ancora, tra l’altro, non è mica finita), voleva l’impresa. Ci ha provato, e non è andata bene.

Detto questo, si può davvero rimproverare qualcosa ad uno che a 36 anni ha vinto due slam in stagione? No, certo che no. Sono pensieri, parole, opinioni e congetture che domani o forse anche prima spariranno. Gli slam di Roger e quanto fatto nel 2017, invece, no

 

 

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