Metti una sera a cena con Federer, a Roma

Questa è la storia di una cena a Roma con Roger Federer, nel rione XIII, Trastevere. Una storia liberamente ispirata dalla nostra fantasia, tutto il resto è stato riportato in maniera originale.

Al telefono la sua segretaria, che parla anche l’italiano, è stata possibilista: “Guardi, non le do conferma ora ma le dico che è fattibile, visto che monsieur Federer sarà a Roma per presenziare un evento Moët & Chandon fra quindici giorni circa”. Quando, qualche giorno dopo, il telefono ha squillato, la segretaria tradiva una leggera inflessione francese con il suo inglese mentre mi confermava che avrei avuto l’opportunità di cenare con Roger Federer, ad un orario preciso e in un luogo preciso. “Check your mail in the next few days for further details. Goodbye”. Click.

Qualche giorno dopo, con tre giorni di anticipo sul nostro appuntamento, una mail invita a fornire un indirizzo. Sarà compito dell’autista arrivare puntuale in zona Trastevere, il quartiere scelto da Roger per la cena. Va sempre lì appena può, l’abitudinario Federer, e quindi la scelta non sorprende. La transportation arriverà in tempo per le 21 e 15, l’orario della cena molto classy e, almeno questa volta, non avrò il problema del parcheggio.

Federer è abituato a presenziare cene di gala, stringendo mani durante noiose convention degli sponsor nella speranza di ricordare il nome dell’azionista di turno, con i muscoli della mascella stanchi dopo i sorrisi dei selfie da dare in pasto ai social. Non gli pare vero di indossare un jeans, un maglione a girocollo e un piumino, camminando senza fretta a Trastevere senza essere riconosciuto. O meglio, non troppo riconosciuto. Si ferma solo quando arriva davanti alla trattoria romana che lo tratterà alla stregua di un qualsiasi turista americano. Insomma, qualche ora di autentica normalità: Roger non cerca altro in questa cena.

Magnamo e bevemo, mo che ce semo“. Dice che rilegge questa frase ogni volta che torna qui, specie in occasione del torneo che non è mai riuscito a vincere.

La promessa era quella di non parlare di tennis o meglio: non troppo di tennis. Il suo accompagnatore e la sua segretaria cenano con i due autisti in un tavolo non troppo distante dal nostro. La segretaria controlla compulsivamente il telefonino e scatta una foto a Roger per farla diventare virale sui vari social network. “Mi piace Roma perché è una città indecifrabile. Ogni volta che sono qui provo a interpretarla, cercare di capire questa maniera folle di invadere le strade fra macchine e motorini oppure capire perché un giorno è pulita e il giorno dopo è sporca. Credo che anche questo riesca ad affascinarmi di questa città. L’unico riferimento che non cambia mai di quando vengo in città sono io è questo ristorante: ogni occasione è buona per tornarci”.

Siamo nella off-season, il periodo di pausa dalle attività tennistiche, almeno quelle giocate. Ci si può sbizzarrire quindi anche a tavola, cedendo alla proposta del cameriere dal grembiule sporco e dalle mani grosse di provare il vino della casa. “House wine” dice a Federer come se fosse l’ennesimo bambacione americano di passaggio a Trastevere. Gli spiego chi era Trilussa, giornalista e scrittore ma che a Roma conoscono principalmente per i suoi sonetti, oltre che per la taverna che ci ospita. Cerco di introdurlo alla romanità, una cosa che percepisce anche lui: “People are warm here”. Accenno con la testa, facendogli capire che il senso di questo calore mi è noto. E siccome questa è una chiacchierata fuori dagli schemi è lui a fare le domande. Dove nasce questo calore, mi chiede, sempre in inglese, perché qualcosa capisce dell’italiano ma non abbastanza per imbastire una conversazione. Rispondo che Roma è una città che è nata popolare e che popolare è rimasta, dopotutto. Che lui, il Divino, le zone popolari di questa città non le ha mai viste e difficilmente le vedrà a meno che un giorno non si trasferisca qui. Ma lui ha la sua mega villa in costruzione in Svizzera, dove regna pace e tranquillità, lontano dai clacson e dal disordine di una città calda come Roma.

Spiego che arrivare a Trastevere nel weekend è roba solo da giovani, da gente vigorosa che si muove in motorino e che affolla i tanti locali ricavati da quelle che una volta erano le botteghe di un quartiere popolare che prende il nome dal fatto di essere al di qua del Tevere. E cerco di tradurgli uno sonetto fra i più famosi di Trilussa, quello del gatto che non mangiò il biscotto inglese.

Un giorno una Signora forastiera,
passanno cor marito
sotto l’arco de Tito,
vidde una Gatta nera
spaparacchiata fra l’antichità,
Micia che fai? je chiese: e je buttò,
un pezzettino de biscotto ingrese;
ma la gatta scocciata, nu’ lo prese,
e manco l’odorò.
Anzi la guardò male
e je disse con un’aria strafottente:
Grazzie, madama, nun me serve gnente:
io nun magno che trippa nazzionale.

Il cameriere arriva con le zucchine alla scapece, che pur essendo campane, a Roma vanno molto di moda, specie in queste trattorie. Non ha avuto dubbi quando ha scelto il primo: “Carbonara, please”. Ha provato anche la cacio e pepe qualche anno fa (“so spicy”), ma la carbonara rimane la sua preferita. Quando è a Roma per il torneo, confessa, gli piace molto fuggire dalle cene d’ordinanza degli sponsor, dove i piatti della cucina povera romana mancano sempre. Chiede il perché, visto che lui ama questi primi con la pasta servita praticamente cruda. Gli spiego che la cucina romana è una cucina popolare, fatta di avanzi e dove, in passato, le madri usavano la fantasia per mettere in tavola qualcosa di sfizioso. Ordino un piatto solo per lui, uno che non ha provato mai, gli gnocchi alla romana. “What’s semolino”, domanda perplesso. Gli spiego che è una specie di farina. Sorride quando assapora questo miscuglio dorato di latte e semolino, tanto gustoso quanto semplice negli ingredienti.

Dovrebbe assaggiare i carciofi alla giudia, che fuori da questo rione (“What’s rione? A block?”) difficilmente mangerà così buoni, per non dire fuori dalla città. Rimane sorpreso dal grande via vai di questi giorni nel quartiere ma  poi ricorda subito che c’è il Giubileo in corso. Non dà l’idea di essere uno di quei cattolici ferventi, quelli che programmerebbero una trasferta solo per guardare dal vivo il papa. “Che è esattamente quello che i tifosi di tutto il mondo fanno per vedere te”, gli faccio notare. Sorride, liberandosi in una risata di cuore e quindi sincera, e poi aggiunge serafico: “But watching me is more fun”. Come dargli torto, brindisi.

Chiedo se oltre alla visita a Roma per lo sponsor ha in mente di fare qualche altro passaggio in città. “Ti incontrerai con Totti?”. “Nahh – risponde – quando ci facciamo le foto assieme è solo per questioni di sponsor, càpita sempre ogni anno e ci tocca sorridere e ammettere che siamo tifosi l’uno dell’altro. Io seguo il Basilea. Certo, uno come lui ci avrebbe fatto comodo in passato. A proposito: come sta andando la sua squadra?”. La sua squadra. Sembra essere consapevole che, a Roma, Totti è il papa del calcio, che la squadra è sua, almeno finché non lascerà ufficialmente. Spiego che l’atmosfera calcistica a Roma ora è depressa, nonostante la Roma si sia qualificata agli ottavi della Champions League, una cosa a cui non siamo troppo abituati, eppure si è tristi. Non capisce questa cosa. Per lui il tifo è molto lineare. “Capire il calcio a Roma è come capire la città: è roba da marziani”. E forse è per questo che Garcia lascerà o sarà cacciato come Marino.

Sorseggia il vino come se avesse uno di quei calici con quei vini odorosi e trattati. Invece lo beve dal classico bicchiere romano d’osteria, quello piccolo che allarga il diametro man mano che sale verso l’alto. Divorata la carbonara, siamo in attesa del secondo, i carciofi. Abbiamo ordinato anche la cicoria ripassata in padella e le patate al forno. Ha voluto evitare la carne, anche se un abbacchio allo scottadito sarebbe da provare a Roma se non sei romano, almeno nell’off season.

Quando è passata un’oretta ancora non è stato toccato l’argomento tennis. Avevamo concordato che la nostra sarebbe stata una chiacchierata informale, per cercare di scoprire il personaggio Federer al di fuori dei soliti schemi, quelli delle dichiarazioni preconfezionate e banali, del politically correct che non viene abbandonato neanche nella parte finale della sua carriera. Sintetizza così i suoi pensieri: “Non sono stanco di prendere aerei, e neanche la mia famiglia è stanca di seguirmi. Mi diverto, sono competitivo e il prossimo anno ci sono le Olimpiadi: perché dovrei ritirarmi?”. Gli ricordo che nel 2013 molti giornalisti speravano che si ritirasse. “Really?” mi dice. “Ma era per il tuo bene”, gli dico, cercando di giustificare questi appelli che qualche giornalista lanciava da giornali molto importanti. Sorride, senza neanche spendersi in una risposta. L’altissima considerazione e consapevolezza che ha di sé lo portano ad assumere un atteggiamento che può sembrare altezzoso ma che, invece, è solo sdegno verso chi non è capace di comprendere le difficoltà del momento in uno sport così complesso. “Ora diranno lo stesso per Nadal immagino, o magari la mia palingenesi gli ha insegnato qualcosa?”. Chapeau.

Si saltano i liquori e si prendono due caffè molto rapidi. Il tempo a disposizione è quasi finito ma ce n’è ancora per un vezzo: il gelato. Passeggiamo per i vicoli di Trastevere, in questo dicembre ancora non gelido. Passiamo davanti a un locale che reclamizza in inglese “Ice cream gluten-free”. La battuta la fa lui stesso. “Prendiamolo qui, magari torno numero 1 del mondo”. Rido, facendo la smorfia come a dire “non può essere solo merito del gluten-free questa annata”. E lui, con quel cinismo tipico dei romani: “Intanto da quando ha smesso di mangiare la pizza ne ha perse poche di partite”.

Ci dirigiamo verso la macchina, qualcuno lo riconosce ma non crede che proprio lui, Federer, stia passeggiando a Trastevere mischiato a turisti, romani, cantanti e venditori ambulanti. Si ferma in piazza Santa Maria, di fronte alla Basilica. “It’s wonderful”, dice. Gli racconto che moltissimi anni fa uno zampillo di olio uscì dal terreno e che dentro la chiesa c’è proprio un altare dedicato alla “fons olei”. Lui rimane estasiato, guarda la gente che gli passa davanti, dietro, di fianco. Incrocia gli sguardi con gli sconosciuti, si inebria per cinque minuti di questa normalità che gli è stata negata, che si è negato. “I have to go”, mi congeda. “I know, good tennis still needs you”, gli rispondo. Il suo sorriso si perde fra i vicoli di Roma.

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