Challenge Round. Murray e il tweet sulla Scozia: dov'è l'ipocrisia?

TENNIS – DI FABRIZIO FIDECARO

“Grande giorno per la Scozia oggi! La negatività della campagna per il no in questi ultimi giorni ha influenzato la mia opinione. Impaziente di conoscere i risultati. Facciamolo!”.

Andy Murray non è conosciuto per il carattere gioviale ed estroverso, almeno nelle sue uscite pubbliche. Forse anche per questo, quando, nel giorno del referendum per determinare o meno l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito, l’ex numero 2 del mondo ha twittato un messaggio di entusiastico appoggio al “sì”, le reazioni da parte di una certa fetta di inglesi sono state senza controllo. Sui social network, nel breve giro di qualche ora, sono comparsi insulti a tutto spiano. I più moderati lo accusavano di essere un codardo, per aver esplicitato il suo schieramento solo quando il fronte indipendentista appariva in rimonta, e un ipocrita, per essersi avvolto nella Union Jack durante i festeggiamenti per la medaglia d’oro conquistata in singolare ai Giochi Olimpici di Londra due anni fa.

C’è stato anche, però, chi si è spinto ben oltre, arrivando a proferire chiare minacce o rammaricandosi che “quel miserabile ipocrita anti-britannico non sia stato ucciso a Dunblane” (per chi non lo sapesse, la scuola elementare di Andy fu teatro nel 1996 di un terribile massacro, in cui persero la vita sedici alunni e un insegnante). Dopo il successo del “no”, il trionfatore di Wimbledon 2013 si è detto dispiaciuto per i toni forti usati su Twitter, non in linea con il suo stile, sottolineando però di non essersi pentito per aver reso manifesta la sua opinione.

Ora, sulla falsariga di Zenga con Caniggia nella semifinale di Italia 90, Murray ha senz’altro sbagliato i tempi della sua uscita. L’accusa di falsità, però, risulta del tutto infondata, perché Andy avrebbe potuto benissimo starsene zitto e buono, non esprimere ufficialmente alcun parere mantenendo una comoda neutralità di facciata e poi, sotto sotto, in privato, tifare in modo sonoro per l’indipendenza. Non lo ha fatto, e proprio i tempi errati delle sue dichiarazioni lo assolvono in pieno dall’imputazione di fare calcoli per mera convenienza. Ipocriti, casomai, sono quei sudditi della regina che prima, quando non riusciva a compiere l’ultimo passo negli Slam, lo consideravano con malcelato disprezzo solo uno “scozzese”, poi hanno esultato alle sue grandi vittorie reputandolo in tutto e per tutto uno di loro, per tornare infine a scaricarlo nel momento in cui i suoi risultati, negli ultimi tempi, non sono stati più all’altezza di un Fab Four.

Inoltre, per tornare allo storico oro a cinque cerchi, che cosa avrebbe dovuto fare Andy in quegli attimi di gloriosa felicità? Rifiutarsi di posare, medaglia al collo, con la bandiera che, volente o nolente, stava rappresentando? Oppure, più a monte, ripudiare lo United Kingdom sottraendosi all’impegno (e al sogno) olimpico? O magari, nell’impossibilità di giocare solo per la sua Scozia, cercarsi un passaporto kazako? Via, siamo seri.

Forse Andy non aveva valutato fino in fondo le possibili conseguenze delle sue dichiarazioni, o magari sì, ma lo slancio di sincerità è stato più forte. Adesso, in ogni caso, dovrà farci i conti, e mettere in preventivo qualche fischio (o parecchi): l’anno prossimo a Wimbledon – o già fra un mese e mezzo alla O2 Arena, se dovesse qualificarsi alle Atp World Tour Finals – il clima nei suoi confronti potrebbe divenire rovente. Rimane la consapevolezza, ribadita dallo stesso Murray, di aver esercitato il semplice diritto di esprimere un’opinione. Si può condividerla o meno, ma, se è legittima – e questa comunque lo era, tanto più che il 45 per cento degli scozzesi ha dimostrato di pensarla alla stessa maniera – non dovrebbe mai portare a repliche che vadano al di là di un civile dissenso. E stavolta, spiace constatarlo, si è oltrepassato il limite di un bel po’.

 

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