Challenge Round. McEnroe, Ashe e quella chiamata al Masters…

di FABRIZIO FIDECARO

John McEnroe, diciannove anni, contro Arthur Ashe, trentacinque. La finale del Masters 1978, disputata al Madison Square Garden di New York nel gennaio dell’anno successivo, è rimasta nella storia per la fantastica sfida tra generazioni americane. I due, in verità, si incontrarono già in apertura di round robin, e Mac concesse appena quattro game al più anziano rivale.

John proseguì il suo cammino trionfale in un girone tutto statunitense, superando Jimmy Connors, che si ritirò indietro per 75 3-0, e liquidando Harold Solomon con un rapido 63 62. Anche Ashe non ebbe difficoltà contro Solomon, battuto per 61 64, e fu promosso alle semifinali grazie al successo per walkover contro Jimbo.

Intanto, dall’altro raggruppamento ad avanzare furono Brian Gottfried ed Eddie Dibbs, andando a completare il quadro delle semifinali 100 per cento a stelle e strisce. In questo gruppo era incluso anche l’azzurro Corrado Barazzutti, attuale capitano di Coppa Davis e Fed Cup, ma il nostro “soldatino”, come già il collega Adriano Panatta tre stagioni prima, non riuscì ad aggiudicarsi nemmeno un incontro, strappando un set soltanto al messicano Raul Ramirez, comunque eliminato come lui.

In semi Ashe si scontrò con Gottfried, che, proprio come McEnroe, non aveva ancora lasciato per strada un parziale. Lo sconfisse, un po’ a sorpresa, in tre set (75 36 63), regalandosi l’approdo al match clou. Nell’altra sfida fu tutto semplice per Mac, che rifilò a Dibbs un rapido 61 64.

McEnroe e Ashe si ritrovarono così uno di fronte all’altro nel match clou. Alla vigilia l’asso emergente godeva degli ampi favori del pronostico da parte di addetti ai lavori e appassionati. La condizione brillante e lo splendido tennis che aveva messo in mostra, uniti ai sedici anni di differenza con l’avversario, sembravano preludere a una facile affermazione del giovanotto nato a Wiesbaden, in Germania (ma newyorkese a tutti gli effetti, come avrebbe ricordato, qualche tempo dopo, un bellissimo poster in bianco e nero della Nike).

L’andamento, invece, fu ben diverso. Ashe, agli ultimi scampoli di gloria della sua straordinaria carriera, fece suo il primo set al tie-break e, dopo aver subito un 63 nel secondo, si involò sul 4-1 nel parziale decisivo. Il “supermoccioso” recuperò fino al 4 pari, ma, alla battuta sul 4-5, dovette fronteggiare due matchpoint consecutivi, guadagnati dal vecchio leone grazie a una serie di magnifiche risposte. Mac annullò il primo grazie a un efficace serve & volley, ma sull’altro Ashe piazzò una nuova risposta vincente di rovescio, sulla quale il rivale tentò inutilmente l’allungo. Sarebbe stato il modo migliore per concludere un incontro storico, che avrebbe consegnato al veterano di Richmond un titolo insperato.

Le cose, però, non andarono così: il servizio di Mac, probabilmente buono, venne chiamato out. All’epoca non esisteva l’Occhio di Falco e non vi fu alcuna protesta da parte di Arthur, ma in pochi attimi l’incontro girò: sulla seconda il campione di Wimbledon 1975 sbagliò malamente un diritto e John, con una serie di tre giochi di fila, riuscì a prevalere, conquistando il primo dei suoi tre titoli nel torneo dei Maestri. Ashe accettò la sconfitta con la consueta signorilità, ma, a detta di tanti, quella chiamata avversa sul matchpoint non gli andò mai giù.

Per lui quella appena terminata, con una sconfitta piena di rimpianti, sarebbe rimasta l’ultima stagione ad altissimo livello. John, dal canto suo, era invece in rampa di lancio verso i suoi anni migliori, quelli che l’avrebbero visto prima confrontarsi con Bjorn Borg in epici duelli sui massimi palcoscenici e poi raccogliere l’eredità dell’Orso svedese alla guida del tennis mondiale. Avrebbe ritrovato un Arthur ormai ritirato dal Tour come suo capitano nel team statunitense di Coppa Davis: insieme si sarebbero aggiudicati due insalatiere di fila (1981-82), vivendo uno di fianco all’altro nuovi scintillanti giorni di gloria.

 

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