Dagli slam alle Finals alla top 10: tutte le sfide di Fognini. E quei 1000 non più inaccessibili…

Nei primi 92 Masters 1000 (la sigla è in auge dal 2009) sono stati 7 i vincitori “inattesi”, fuori dall’ambito dei più forti. Ma nei successivi 17, addirittura 8. Fabio compreso.

C’è un nuovo Fognini, dentro l’antico involucro del primo. Fogna 2, non per caso. È la firma che lui stesso appone in capo all’opera meglio riuscita della sua ormai lunga carriera, scritta di getto sulla telecamera che accoglie l’autografo del vincitore, di fianco a un cuore palpitante e a un lungo “ahhhh” che esprime quel senso di liberazione che tutti abbiamo avvertito, nel compiersi di un’impresa che tardava a prendere forma. Fogna 2, la Riscossa? Ma sì, anche quella, parte di un insieme di belle sensazioni che accolgono tutto ciò che di buono Fognini ha sempre messo in campo e lo ripropongono in confezione regalo, con la ritrovata voglia di combattere, con quel pizzico di fortuna che in altri momenti si era fatta di nebbia, e con la sacrosanta determinazione a condurre fino in fondo un torneo che lo innalza finalmente ai livelli più alti del tennis.

«È uno che sa giocare», dice Panatta, «mentre altri, se gli togli l’intensità, sono poca cosa». Numero 12 della classifica Atp, da lunedì (più uno rispetto al ranking toccato nel 2014) e dunque numero tre d’Italia nella storia Open del nostro sport, dietro Panatta e Barazzutti, ma al fianco di Bertolucci. «Finalmente ti ho raggiunto» dice Fabio, «Tranquillo, presto sarai nei primi dieci», lo incoraggia l’antico davisman. In un mondo di Fabulous, di favolosi, di Fab tre, quattro o cinque, lui che si chiama Fabio potrà ben chiedere di essere chiamato Fab Io. In fondo, perché no? Fognini è ormai sul podio della nostra storia tennistica.

Vi è giunto nell’anno più scombiccherato che si sia mai visto. A un avvio discreto, in Australia, hanno fatto seguito due mesi inconcludenti, tali da far pensare che a Fabio fosse venuta meno la voglia. E forse qualcosa di vero c’è, anche se lui preferisce usare altre parole. «Non direi voglia, quella c’è sempre stata. Più che altro, pazienza… Ecco, quella era un po’ venuta a mancare. Non negli allenamenti, ma in partita. E ha finito per mettermi a disagio, perché la pazienza è un’arma in più nei momenti caldi del match, quando c’è da lottare. E io, che negli scontri ravvicinati non mi sono mai tirato indietro, ho avvertito una fragilità che non conoscevo e che mi ha preoccupato».

Monte-Carlo ha fatto da perno per la svolta, una vera inversione di marcia. Come, perché, nessuno può dirlo. Lo stesso Fogna Due si limita a indicare «l’imprevedibilità del tennis» come promotrice del cambio di direzione. Forse… O magari c’è altro, Fabio avrà tempo per rifletterci. Di sicuro – ci permettiamo un suggerimento – l’aria di casa gli ha fatto bene, la sua Arma di Taggia è lì a un passo, e il pubblico in gran parte italiano che l’ha seguito con affetto, come il box zeppo di volti amichevoli e familiari, la sua Flavia e Francesca Schiavone, coach Davin e Barazzutti, padre e madre (a lei la dedica della vittoria, come regalo di compleanno), sorella, amici. Sono le condizioni migliori per Fabio, e l’hanno rimesso sulla giusta via.

Il Fabio Due è anche quello che non esce fuori di testa. Non più. O non più come una volta. «Qualche racchetta l’ho spaccata in questi mesi senza risultati», confessa, ma non è in ballo, qui, il senso di frustrazione che ogni tennista prima o poi avverte quando le cose non vanno per il verso giusto, e nemmeno il prezzo di una racchetta. Piuttosto, quella furia cieca che lo prendeva in ostaggio, alla quale si consegnava quasi succube, controproducente e “tafazziana”, sulla quale hanno lavorato fior di psicologi dello sport. Doveva crescere, Fabio, anche per accettare i consigli che gli venivano dalla comunità scientifica riunita al capezzale del suo tennis inespresso, frenato dalla rabbia, imbrigliato dai nervi. A ognuno i suoi tempi, impariamo a non dimenticarlo mai, e pazienza se in certi casi questi appaiono sin troppo lunghi. La ricostruzione Fabio se l’è fatta in proprio, e solo quando ha avvertito la voglia di mettere da parte le mattane di un tempo, è stato in grado di fare proprie le indicazioni che gli giungevano da più parti, dai familiari, dai coach, dagli amici più intimi. Al punto che a lungo è rimasta di attualità la domanda se fosse meglio il Fogna incavolato ma spontaneo, oppure quello più avveduto. Fogna Uno o Fogna Due? Come sempre, due “is mel che uan”, ora ne siamo tutti certi.

Le note dell’inno di Mameli che risuonano fra i campi del Country Club hanno emozionato. Sono le prime che sentiamo in un Masters 1000. Ce le terremo strette, insieme con le immagini di Fognini che aggancia Rublev, schianta Zverev, rimonta Coric e disinnesca Nadal, prima di sistemare da favorito la pratica Lajovic. L’abbraccio di Nicola Pietrangeli al vincitore, ha ricordato come il torneo monegasco – così italiano per presenze e partecipazione – non finiva a un azzurro dalla pietrangiolesca vittoria del ‘68, la terza della serie per Nick, cinquantuno anni fa.

Ora l’importante, per Fabio (pardon Fab Io) è che il seguito sia all’altezza, come dargli forma lo decideranno il Fogna Due, o Tre o Quattro.

C’è un possibile assalto alla Top Ten, prima di tutto. Potrebbe avvenire già nei prossimi giorni, se Fognini deciderà di giocare “il torneo di casa”, a Barcellona, dove vive. La visuale dal numero 12, la poltrona Atp sulla quale finalmente ha trovato posto (l’inseguimento è durato cinque stagioni), è alquanto invitante, e non è difficile accorgersi che il numero 10, il pivot americano John Isner, dista ormai meno di 300 punti, 245 per la precisione. Servirebbe una finale a Barcellona, per farcela… L’anno scorso, fra Monte-Carlo (2° turno) e Roma (quarti), Fabio inserì Monaco e Madrid, finendo sconfitto due volte al primo turno. Spazio di manovra ce n’è. Ma le condizioni fisiche sono quelle che sono, e anche nella finale contro Lajovic, a Monte-Carlo, Fabio ha avuto bisogno del fisioterapista.

C’è poi da scalare la montagna degli Slam, che lo ha sempre respinto. Il quarto di finale al Roland Garros del 2011 continua a essere il miglior risultato ottenuto da Fabio (ottavi in Australia e New York, terzo turno a Wimbledon), ma l’esempio di Cecchinato dell’anno scorso, salito dal nulla alle semifinali, ha dato una scossa all’orgoglio di Fognini, che non ha intenzione di mettere in dubbio il suo ruolo di primo fra gli italiani.

Infine, la meta delle finali Atp a Londra (in attesa che passino a Torino). Da ieri, Fognini è al numero 7 della Race, in piena zona Masters di fine anno. Una battaglia lunga, che vale la pena di combattere.

Il tennis di vertice offre maggiori opportunità di una volta. Nei primi 92 Masters 1000 (la sigla è in auge dal 2009) sono stati 7 i vincitori “inattesi”, fuori dall’ambito dei più forti. Ma nei successivi 17, addirittura 8, con Sascha Zverev vincitore a Roma 2017 ad aprire la strada a Dimitrov (Cincinnati 2017), Sock (Parigi Bercy 2017), Del Potro (Indian Wells 2018), Isner (Miami 2018), Khachanov (Parigi Bercy 2018), Thiem (Indian Wells 2019) e Fognini (Monte-Carlo 2019).

Allo stesso modo, un’opportunità viene anche dalla stagione di buona grazia che sta vivendo il tennis italiano maschile, con due tornei già vinti (Cecchinato a Buenos Aires, prima di Fogna Due), sei giocatori fra i primi 100 e altri 13 entro il numero 200. Una riserva di entusiasmo, tale da far dimenticare le difficoltà del nostro tennis al femminile, precipitato nella serie C della Fed Cup.

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