Bajin: “Vedevo la grandezza in Osaka, speravo di essere io a poterla tirar fuori”

Intervista esclusiva a Sascha Bajin, eletto allenatore dell'anno nella WTA. Dagli inizi con Serena Williams all'unione con Osaka per un 2018 da sogno. Poi l'aneddoto della sua caviglia che ha ceduto il primo giorno, citato da Naomi allo US Open: "Mi ha dato una seconda chance, meno male".

Sascha Bajin è stato eletto coach dell’anno a livello WTA, merito dei grandissimi risultati ottenuti con Naomi Osaka soprattutto a Indian Wells e allo US Open. Poco tempo fa, a Singapore, lo abbiamo intervistato in esclusiva a margine di una stagione eccezionale per lui e il suo team.

Il coach tedesco ha portato la giapponese dai margini della top-70 fino al best ranking di numero 4 del mondo, portando con sé tutta la grande esperienza raccolta in 8 anni di lavoro con Serena Williams. E approfittando della sua gentilezza, abbiamo provato a scoprire qualche dettaglio sulla sua carriera ma anche sull’esperienza di avere a che fare con due grandissime giocatrici.

Come hai cominciato la carriera di sparring partner con Serena?
Era il 2007 e Serena cercava un ragazzo giovane con cui collaborare giorno per giorno e Jovan Savic le consigliò il mio nome. In quel periodo io ero un semiprofessionista, di tanto in tanto insegnavo. Lei era appena arrivata in Germania, a Monaco, da Roma per incontrarmi e fare 4 giorni di allenamento. Alla fine le è piaciuto il modo in cui comunicavano, come le facevo colpire la palla e mi chiese se avessi voluto andare al Roland Garros con lei, io ovviamente le risposi “sì”. E pensare che quando Jovan mi chiamò e disse che domenica mattina avrei dovuto essere in campo per il primo allenamento con lei io non avevo voglia, volevo stare in giro il sabato sera a divertirmi. Lui ha insistito dicendo che sarebbe stato molto utile per me e alla fine accettai. Probabilmente avessi detto “no” un’altra volta non sarei stato qui oggi. Da lì in avanti il mio unico obiettivo è stato quello di aiutare il più possibile Serena, fare tutto quello che potevo per metterla nelle migliori condizioni.

Quali sono stati i momenti migliori e peggiori, in quegli 8 anni assieme?
Migliori? Sai, faccio molta fatica a sceglierne uno in particolare… Abbiamo vinto tantissimo, sono stato anche alle Olimpiadi, già il semplice fatt che potessi allenarmi con la più forte al mondo non poteva che rendermi felice. Come momento negativo ti direi il periodo quando lei si fece male al piede, in cui seguirono diverse complicazioni come l’embolia polmonare e tutto quanto.

Come sei entrato in contatto con Osaka, invece?

Avevo finito di collaborare con Caroline Wozniacki, e lei aveva deciso di prendere un’altra strada. Tre giorni dopo ho avuto una chiamata dall’agente di Osaka e lui credeva io fossi ancora impegnato con la danese. Quando gli ho detto “no” ha subito risposto “oh wow! Naomi proprio ora sta cercando un coach con cui lavorare, vuoi venire?”. Non conoscevo molto di lei come persona. Conoscevo abbastanza bene la giocatrice, ma lei si trovava appena a trenta minuti di macchina da casa mia e quindi era perfetto. Nel primo allenamento, dopo cinque minuti, mi sono rotto i legamenti della caviglia.
Non si era solo storta?

No, mi sono proprio lacerato tre legamenti nella parte esterna, uno in quella interna, ti giuro che ho ancora un male incredibile. Cinque minuti dopo l’inizio ho fatto un cambio di direzione durante un palleggio ed è successo il macello. L’intera prima notte fu tremenda: non riuscivo quasi a dormire, non so come ho fatto a tornare a casa in macchina quella sera. Non potevo premere sull’acceleratore o frenare in un’autostrada e ho dovuto fare tutto col piede sinistro. Lei comunque mi ha dato un’altra chance per il giorno dopo e dopo un paio di antidolorifici mi sono ripresentato, meno male, ma è stata dura.

E lei a scherzare dopo la vittoria agli US Open dicendo che proprio per quell’incidente aveva capito tu fossi quello giusto.
Sì (sorride, nda). Forse le ho fatto tenerezza (ride, nda). Ho visto quell’intervista, mi ha fatto molto ridere.

Come mentalità, pensi di poter fare un paragone tra Serena e Naomi?

No non farei mai un paragone tra due individui, perché ognuno è diverso dall’altro, ognuno ha il suo percorso, ma lei sicuramente ha la grandezza dentro di sé. Quando l’ho vista chiudere il match a New York, in finale, sono rimasto affascinato dalla sua capacità di isolarsi da tutto quello che stava capitando. Poi siamo andati a Tokyo e la pressione era molto alta: tutti erano lì per lei, e in tutte le partite c’erano a bordo campo i capi dei suoi sponsor principali. È riuscita a fare finale, poi semifinale a Pechino. Noi abbiamo visto diverse atlete dopo aver ottenuto un risultato importante come un titolo Slam avere un calo, normale, mentre Naomi è come se avesse semplicemente iniziato un processo nuovo. È qui che dico che per me lei ha una grandezza dentro. Non si è fermata a pensare di aver ottenuto qualcosa di straordinario, ma è subito ripartita. Il giorno dopo Indian Wells era già in campo per allenarsi perché voleva a tutti i costi essere pronta per affrontare Serena a Miami.

Fai diversi accenni alla grandezza interiore di Naomi, ho una curiosità: hai notato qualcosa prima di Indian Wells, magari nell’atteggiamento o nella condizione, che potesse indicare un possibile primo grande risultato in un grande torneo o una crescita in qualcosa di particolare?
Prima che io diventassi il suo coach mi ricordo che ero a casa, seduto sul divano, e stavo guardando qualche video delle sue partite. È qualcosa che faccio con tutte le giocatrici, perché è vero che il tour è un luogo piccolo e bene o male conosci un po’ tutti, Naomi è molto giovane e l’avevo vista da vicino quando aveva fatto due allenamenti con Wozniacki una volta a Eastbourne o al Roland Garros. Conoscevo il suo gioco, ma volevo capire come lei si comportasse per esempio quando chiama il coach in campo, oppure guardavo le varie interviste per trovare alcuni dettagli, o riguardavo partite intere… Tutto questo per le prime due o tre notti. Ero veramente preso dalla situazione, mi intrigava questo gran servizio, e mi chiedevo come mai lei non avesse ancora vinto un grande titolo. Non sono riuscito a capirlo, son sincero, ma proprio per quello ho cominciato a chiedermi se potessi essere io la persona che l’avrebbe portata a quel risultato. Lo sapevo che lei ce l’avrebbe fatta, che fosse avvenuto a Indian Wells, o all’Australian Open, o allo US Open… Non puoi prevederlo, ma sapevo ci fosse qualcosa di speciale e volevo sapere se sarei potuto essere io quello che le avrebbe tirato fuori questa grandezza.

Come è il tuo approccio con lei durante gli allenamenti? Che persona è Naomi?

Dipende dal periodo. Noi programmiamo sempre qualcosa su cui lavorare, scegliamo due-tre particolari al giorno. In ogni caso è abbastanza importante che io sappia di che umore è Naomi quel giorno. Se è triste, se è felice… Difficile prevederlo, ma il mio lavoro come coach è anche quello di farla sentire a completo agio. Se è stanca o arrabbiata perché ha perso il giorno prima magari scherzo un po’ così da tirarla su. È un po’ lo stesso con ogni giocatrice, ma tutto sommato è bello lavorare con lei. All’inizio ero forse troppo impaziente e lei me lo faceva notare ridendo di me. Col tempo ho imparato a essere più paziente e a darle molto più spazio per esprimersi, fidarmi molto di più di lei come giocatrice.

Che effetto ha fatto essere presente in Giappone e vedere Naomi rientrare dai suoi venendo investita dalla folla, dai media e dagli sponsor?
Già dopo aver vinto Indian Wells, quando l’ho seguita per il weekend di Fed Cup a Kobe, siamo arrivati e abbiamo fatto assieme una conferenza stampa con 40 diverse televisioni presenti, una marea di fotografi. Con Serena non mi era mai capitato in 8 anni di lavoro. Dopo lo US Open, quando è arrivata a Tokyo, mi ha raccontato di qualcosa di irreale, con oltre 400 persone accreditate. È bellissimo vedere come lo sport possa portare a un boom di interesse di questa portata.

Quest anno le giovani tenniste come Naomi hanno avuto tutte ottimi risultati, se poi vediamo come alcune di loro sembrano aver legato molto bene coi rispettivi coach viene da pensare a quanto sia effettivamente importante avere questa grande intesa. Tu e Naomi avete spesso mostrato cosa voglia dire, ma anche Daria Kasatkina e Philippe Dehaes, o anche Aryna Sabalenka e Dmitry Tursunov…

Assolutamente, assolutamente. Non può non esserci questa coesione di ferro se noi non riusciamo a far sentire le giocatrici a loro agio e se non riusciamo a entrare in connessione a livello personale. Penso che se gli interessi fossero diversi, se i caratteri fossero diversi, ci sarebbe molta difficoltà a trasferire quella che è la mia conoscenza, la mia parte di me a Naomi, in questo caso, o trovare un linguaggio comune ed essere in grado di poter durare per tutto l’anno. La stagione è molto lunga e ora, che siamo a fine ottobre, posso dirti che da quando ho cominciato a lavorare con Naomi ho avuto appena 13 giorni senza di lei. E tutto ciò è iniziato a dicembre. Se non leghi, se non trovi quella connessione speciale, è quasi impossibile costruire qualcosa di importante.

Dal tuo punto di vista, è stata dura gestire il periodo dopo Charleston dove lei era molto giù di morale e ci ha messo un po’ di settimane prima di tornare a sentirsi bene in campo?
No non direi che siano passate settimane, da come la vedevo è stata una questione di qualche giorno un po’ così, forse anche perché si era fatto sentire tutto quello che era successo nell’ultimo periodo, dal successo a Indian Wells. Subito dopo quel successo era in campo per prepararsi alla sfida contro Serena, dove ha vinto, e non ha avuto pause. Poi è stata un po’ male anche durante il match contro Svitolina… Penso che tutto quanto sia sopraggiunto un po’ nello stesso momento e l’abbia spenta, ma dopo qualche giorno l’avevo vista già meglio.

Sei stato sorpreso dalla reazione di Naomi alla prima vittoria contro Serena? In conferenza stampa disse una cosa molto particolare, cioè che era stata come felice di sentirle urlare un ‘come on’ perché quello era il segnale che lei si stesse impegnando.
No, per niente. Questo è un altro motivo per cui prima dicevo che vedevo qualcosa di speciale in lei. Lei davvero vuole affrontare le migliori avversarie che possano esserci in quel momento per sfidare se stessa. Io sapevo dall’inizio che lei avrebbe potuto dare il massimo nei campi più importanti, nei tornei più importanti. Lei ha un’ottima attitudine quando le cose sembra che siano complicate. Questa è una qualità di pochi, il volere sempre la migliore avversaria possibile, non volere mai la scelta più facile, voler battere le migliori per sentirsi come i migliori.

Quale può essere il segreto per non andare incontro, ora, a un calo nel livello di gioco?
Credo che lei stessa non voglia permetterselo. Ci sono varie cose su cui dobbiamo lavorare, come avere più costanza durante l’arco della stagione e lavoreremo forte ora, in off season, per prepararla nel miglior modo possibile e anche in questo finale di stagione l’ho vista bene anche quando perdeva il primo set cercava di rientrare. A Pechino era riuscita a portare a casa il match contro Zhang, qui a Singapore è stata un po’ sfortunata contro Kerber ma in entrambe le partite aveva trovato il modo di rientrare vincendo il secondo set, quindi mi sembra che la strada intrapresa sia buona. Speriamo sia un buon 2019.

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