Federer, l’umano trentasettenne

Non c'è ancora nessuna sentenza, non c'è alcuna certezza: l'entusiasmo però latita e questo rende tutto più difficile. Normale per un trentasettenne, meno se si chiama Roger Federer.

Un ventilatore davanti, quindicimila persone attorno a sé, l’avversario nella sedia accanto all’arbitro, il tuo team impassibile, i pensieri confusi e una grande, immensa, umana voglia di andare via.

 

Sono contento che il match sia finito, ad essere sincero

Nemmeno Roger Federer si rende conto delle sue parole, mentre le pronuncia, con indumenti casual ormai d’abitudine in conferenza stampa, l’aria stravolta e incredula, cerca di razionalizzare quello che può ma dopo un’ora non è facile.
Dopo tutti questi mesi, non è ancora facile. Forse non lo sarà mai, come fai a ridurre a una conclusione sola quello che ami?
Eppure, in queste parole, c’è molto di quanto Roger ancora non riesce a capire, a dare un peso, a vedere.
In questa terra di nessuno, che sta “da qualche parte nel cuore, come un ricordo incastrato tra la noia e il dolore” Roger non riesce a trovare se stesso.
Non c’è nessuna sentenza, nessuna certezza, neanche quella pronunciata troppe volte in questi anni e su cui ancora, forse prendendosi in giro, confonde se stesso e gli altri. Non c’è perché Federer non sa ancora quando appenderà la racchetta al chiodo ancora adesso anche se, naturalmente, a trentasette anni è una decisione che vede avvicinarsi.
Non c’è però nemmeno l’entusiasmo, la voglia di spaccare tutto, di riprendersi quello che è stato suo, non c’è la leggerezza che ha accompagnato tutto il 2017.
Ma quello che è accaduto fino a Febbraio di quest’anno non è una cosa che accade in terra; non è comune e non può essere considerato naturale, dovuto, neanche per un fenomeno che detiene ogni record, che ha visto se stesso resuscitare da momenti anche peggiori di questo. No, la normalità è questa, la prassi è avere giornate in cui il fisico fatica di più, essere spento nella reattività in campo, commettere 77 errori gratuiti, patire l’80% di umidità. Uscire agli ottavi di finale di un torneo dello Slam.
Però Roger Federer è questa fusione di umano e divino e gli standard che ha creato per sé sono così alti che le reazioni, lo stupore, lo scetticismo che accompagnano queste sconfitte non possono essere da meno.

Febbraio, qualcosa si spezza. Roger ha vinto il ventesimo Slam ed è andato a giocare Rotterdam per prendersi il numero 1, rincorso la scorsa stagione senza successo. Ci riesce, tra una partita emotiva e qualche tentennamento, e arriva l’ennesima (ultima?) consacrazione. Roger non lo sa, ma qualcosa dentro di lui si quieta: no, non l’amore per il tennis, non la voglia di sudare ancora ma una ferocia ed un’avventatezza che gli hanno permesso di riprendersi l’Olimpo a lui caro.
Non aveva giocato in Australia come l’anno precedente ma il livello di gioco rimaneva alto, costante, solido.

Federer è arrivato ad un punto della sua carriera in cui ha bisogno di qualcosa in più, per superare se stesso, perché deve superare se stesso: non basta più giocare secondo una routine stabilita, non basta evitare i malanni, non basta più essere in forma; quello che serve allo svizzero è sempre più difficile, perché l’intensità mentale e fisica non può essere la stessa, non può accendersi e spegnersi a comando, non può essere alimentata dalle normali sfide quotidiane.

Roger non c’è ancora arrivato a metabolizzare quanto successo e, come spesso è accaduto nella sua carriera, ci mette un po’: anche nel 2013 -ma lì complici anche le condizioni fisiche difficili- ebbe bisogno di una scossa per tornare a darsi degli obiettivi e un ardore che già cinque anni fa sembravano impossibili.

Oggi, cinque anni e tre Slam in più, appare ancora più improbabile ci riesca: il mezzo uomo può legittimamente abbandonare, il mezzo Dio può sorprenderci ancora.
In ogni caso, è ora che uno dei due prenda l’iniziativa.

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