Us Open: comunque vada, sarà un successo

Ci ritroviamo dopo il viatico americano verso gli US Open con alcune sicurezze (ormai) e molte domande ancora aperte, soprattutto nel femminile. Con una sicurezza, una sola: la non forma di Federer

Dunque, dunque. Ci eravamo lasciati a Wimbledon con alcuni dubbi, una “bussata” serba che pochi ormai attendevano e la Kerber in versione wawrinkiana.

Ci ritroviamo dopo il viatico americano verso gli US Open con alcune sicurezze (ormai) e molte domande ancora aperte, soprattutto nel femminile. Lasciando da buoni cavalieri la precedenza alle gentil donzelle non si può fare a meno di notare, nel post Wimbledon, come sia la vincitrice del torneo londinese che la finalista siano perentoriamente sparite dal radar; la Kerber è riuscita a malapena a raggranellare un ottavo di finale a Cincinnati mentre Serenona, fortemente influenzata dalla notizia del rilascio dell’assassino della sorella, dopo la peggiore batosta in carriera subita a S.José non ha partecipato a Montreal ed è stata eliminata dalla Kvitova a Cincinnati al secondo turno. In compenso gli Stati Uniti almeno si sono potuti rallegrare con la temporanea rinascita dopo la stagione erbivora di Sloane Stephens, che a quasi un anno dalla vittoria agli US Open è tornata a una finale importante (in Canada) che ha quasi il sapore di un buon apripista per lo slam di casa.

Chi è tornata a fare la voce grossa dopo le delusioni londinesi è Simona Halep che prima ha vinto a Montreal, tanto per ribadire chi sia la vera numero uno attuale del circuito, e poi è arrivata a un solo punto dal conquistare anche Cincinnati, salvo crollare di fatica di fronte a quella che sta diventando la sua vera e propria bestia nera, Kiki Bertens, la quale in Ohio ha conquistato il torneo più importante della carriera.

Difficile pensare che a New York le protagoniste siano diverse dai nomi appena fatti, con le sole ipotesi Kvitova (vabbeh, ormai lo abbiamo scritto…) e Keys (anche lei fedele all’adagio “a volte ritornano…”) o a una Serena che a Flushing Meadows sarà da tenere in considerazione anche a 40 anni con una ciambella in bocca.

Venendo ai maschietti invece le sensazioni restano le medesime di un mese fa. Nadal rimane ogni dove l’uomo con cui fare i conti. Nole sta finalmente tornando a livelli robotici. Federer continua a calcare i campi con una forma da cottolengo e gli altri fanno da comparse. Per avere pietà dei lettori potremmo chiuderla qui, sapendo che a meno di tabelloni spietati o inondazioni improvvise la coppa se la giocheranno il serbo e lo spagnolo. Ma due paroline vogliamo spenderle va…

Nadal ha vinto senza nemmeno sudare in Canada e si è permesso il lusso di riposarsi a Cincinnati. Se il toro si riposa pure, figuriamoci come arriverà a New York.

Nole pareva aver vinto Wimbledon quasi per sbaglio. Ebbene, se a Toronto la sconfitta contro Tsitsipas sembrava essere stata una conferma degli alti e bassi che ormai parevano caratterizzarlo, a Cincinnati si è avuta conferma invece dell’enorme crescita del serbo, mai così atleticamente a posto da anni. Cinico, resistente, inscalfibile, una molla. In finale contro il fantasma di Federer pareva lui ad aver giocato un match e mezzo in meno.

Gli altri: a parte la sorpresa Tsitsipas, il quale ha vinto (anche alla grande, senza dubbio) a Toronto il biglietto per prendersi la mazzolata in finale da Rafone per poi capitolare subito al primo turno di Cincinnati (oh, mai uno che si confermi due tornei di fila eh…), è stata un’ecatombe di promesse o presunte tali. Uno Zverev sempre più disastroso (cercasi uno bravo al più presto, pietà!) è riuscito persino a perdere contro Haase; un’impresa. Kyrgios gioca tutt’al più un set e solo se ne ha voglia. Goffin ha avuto la bella idea di rirompersi. Shapovalov è tanto bello quanto inconcludente. Lasciando perdere i giovani poi, i “non-giovani” non stanno certo meglio; Cilic è tornato il “vorrei-ma-non-posso” di una volta (vedere le sconfitte quasi da favorito contro Nadal e Nole); Del Potro, dispiace quasi dirlo, pare numero tre più per demeriti altrui che per meriti propri. Dimitrov, beh, è semplicemente Dimitrov. Punto. Ci fermiamo qui.

L’ultima certezza constatata, purtroppo, è la ormai solita “non-forma” di Federer, che lo accompagna dall’Australia (e anche lì la vittoria arrivò quasi per gentil concessione del “vorrei-ma-non-posso”…). Pochi i tornei giocati per centellinare delle forze che a essere sinceri quest’anno non ci sono mai state; la forma vista finora è lontana anni luce da quella del Roger 2017. La pessima uscita a Wimbledon avrebbe dovuto essere forse un campanello per una preparazione al rilancio almeno a Cincinnati, terreno dove a memoria si ricorda il miglior Federer degli ultimi 5-6 anni, e invece il rientro post-Wimbledon è stato un risveglio traumatico. Mai si ricorda alla vigilia degli US Open un Federer così spento fisicamente, scentrato nei colpi e vuoto di testa. Chissà, la forma magari verrà proprio a Flushing Meadows, ma sono gli stessi discorsi fatti a Halle… Lui stesso, forse una delle pochissime volte in carriera, ha fatto una grossa autocritica definendo la sua finale in Ohio “orribile”, trovando una spiegazione delle sessioni serali dei giorni prima, nel doppio turno del venerdì, nei piedi lenti e nella mancanza di recupero. A’ Rugge’, permettici: a casa nostra, con tutto l’amore che ti si può volere, si chiama vecchiaia…

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