La prima rivincita di Caroline Wozniacki

Dopo le tante critiche ricevute negli anni passati Caroline Wozniacki ha conquistato il titolo più importante della sua carriera, provando definitivamente a rilanciarsi.

È sempre stata, Caroline Wozniacki, una ragazza a cui piaceva mostrarsi molto sorridente. Fin dai primi anni in cui giocava tornei WTA e si faceva conoscere al grande pubblico, il suo volto era uno dei più graditi ai fan. Piaceva anche il suo passaporto: Danimarca. Nessun grande giocatore o giocatrice era mai provenuto da lì, la migliore prima di lei fu Tine Scheuer Larsen, classe 1966 e classificatasi numero 34 del mondo il 29 settembre del 1986. Questa giocatrice, tra le altre cose, è ricordata ancora oggi come una delle 3 in grado di mettere a segno un Golden Set in carriera. Avvenne in Fed Cup, nel 1995, nella zona Euro/Africana contro Mmaphala Lesatlie in un incontro vinto 6-0 6-0.

Succede quasi sempre questo quando si vede un atleta (maschio o femmina) provenire da una nazione con pochissima cultura tennistica di alto livello, si prova una simpatia spontanea per vedere fino a quale limite può spingersi. Wozniacki ha da subito intrapreso una grande ascesa e ad appena 19 anni conqistava già la prima finale Slam, allo US Open 2009. Fu la più giovane prima dell’avvento quest anno di Jelena Ostapenko, la quarta dall’inizio del nuovo millennio dietro soltanto a Maria Sharapova, Kim Clijsters e Justine Henin. Aveva tutto per sfondare, non fosse che il suo gioco non particolarmente incisivo divenne un po’ il suo problema principale quando si issò, a fine 2010, al numero 1 del mondo. È storia abbastanza attuale: nel momento in cui una giocatrice raggiunge la vetta, o lo si fa dominando e vincendo i tornei più prestigiosi o si viene sommersi dai primi rumors che diventeranno critiche ai primi errori e risultati mancati. Con lei però i problemi iniziarono subito, fin dalla prima conferenza stampa da numero 1 del mondo. Tra le domande, quel giorno, le fu chiesto: “Sei davvero convinta di meritare il numero 1?”. A conti fatti sono pochissime le giocatrici arrivate al numero 1 del mondo, Wozniacki era soltanto la diciannovesima, dunque perché lei (come anche Jelena Jankovic o Dinara Safina) non avrebbe meritato? Mancava lo Slam, e quel vuoto alla casella sui Major vinti è stata una croce pesantissima.

La danese era il miglior esempio di continuità che si potesse avere in quel periodo: 22 tornei disputati nel 2010 e nel 2012, 12 quelli vinti. C’erano anche alcuni risultati di livello, come i trofei nei Premier 5 di Montreal, Tokyo e Dubai, assieme agli importantissimi Premier Mandatory di Indian Wells e Pechino. Eppure, quando arrivava l’ora X con un Major in palio, spesso cedeva il passo ad altre giocatrici. In Australia sia nel 2010 che nel 2011 la fermò una Na Li non ancora ai livelli espressi pochi anni dopo, a Parigi ha sempre fatto fatica eppure nel 2010 arrivò ai quarti di finale, sconfitta dalla futura campionessa Francesca Schiavone. A Wimbledon due quarti turni (sconfitta da Petra Kvitova, non nell’anno del trionfo, e Dominika Cibulkova), mentre allo US Open due semifinali e altrettante sconfitte contro Vera Zvonareva (forse la più grave di tutte) e poi contro Serena Williams, nel 2011. A guardare quei dati oggi, 10 anni dopo i primi Slam disputati, salta all’occhio un particolare: su 42 Slam disputati (a 2 non prese parte), solo 9 volte è riuscita ad arrivare ai quarti di finale. Tolto lo US Open, dove ha giocato 5 semifinali, il dato scende a 4 su 37. Nonostante tutto, rimase in testa al ranking mondiale per 62 settimane, numero 1 al mondo di fine anno sia nel 2010 che nel 2011 (unica atleta al di fuori di Serena a riuscirci per due anni di fila a partire dal 2008).

Lei, come Jelena Jankovic e Dinara Safina, sono tra le numero 1 che più saltano alla mente, con accezioni negative, quando si analizzano i rendimenti migliori e quelli peggiori. E non serve arrampicarsi sugli specchi per capire che era un giudizio profondamente basato sulla durata del suo periodo in vetta al ranking con quanto raccolto. Ormai, senza uno Slam si tende a giudicare l’atleta come incompleto. Niente Slam, niente numero 1. Niente di più falso, anche, ma vallo a spiegare a chi ancora oggi si ciba di assurdità per cui un numero 1 è più meritevole più di un altro. Oltretutto, in quel periodo Serena stava vivendo due anni piuttosto complicati, cominciate con le minacce alla giudice di linea Shino nella semifinale persa per squalifica contro Kim Clijsters allo US Open 2009. La voglia di chiudere la stagione, il rientro, l’infortunio al piede che la mise fuori gioco da luglio in avanti, l’embolia polmonare successiva. Al suo posto poteva magari esserci un’altra giocatrice più “meritevole”, per continuare con la teoria, come Maria Sharapova o Cljisters (la stessa belga che al primo periodo da numero 1 arrivò con 3 finali Slam perse), che nelle 2 stagioni e mezzo dal rientro ottenne 3 titoli Slam. Eppure c’era lei, Caroline, che macinava punti, copriva il campo (e detto tra noi, probabilmente il suo gioco ora è migliore rispetto a quel periodo), ma non aveva colpi definitivi e non poteva prescindere da una condizione fisica tirata a puntino. La critica non la accettò, lei con l’andare avanti degli anni cercò di farsi voler bene anche con scherzi improvvisati e ben poco apprezzati, come il fingere un attacco da parte di un canguro australiano nei suoi confronti, notizia che rapidamente finì su ogni mezzo d’informazione e la costrinse a ritrattare tutto cercando di buttarla sullo scherzo. I sorrisi dei primi anni da teenager si trasformavano sempre più in momenti di nervosismo, tra insulti agli arbitri (“Ti faccio causa e non so se ti convenga, sarà molto costosa…” a Marija Cicak, la migliore in circolazione; “Sei mai stato a scuola? Rispondimi: sei mai stato a scuola?” ad un arbitro che aveva chiamato buona una palla schizzata sulla riga e giudicata invece fuori dalla danese) e difficoltà a gestire la situazione in campo con crisi di nervi che la portano tutt’ora a chiamare troppo spesso il padre per mettere una pezza. Anche ieri, nella finale del Master, dal 5-0 perse la testa per una chiamata dubbia e quando Piotr scese in campo i gesti erano chiarissimi, anche in danese: “Calma, stai calma!”.

Quando poi Serena rientrò nella parte finale del 2011 e pochi mesi dopo esplose la sua grandissima amica di adolescenza, Victoria Azarenka, la situazione fu ancor più complicata. Da che era stabile tra le prime del mondo, improvvisamente il livello scese e abbandonò anche la top-5 diventando una giocatrice di seconda fascia. Con Azarenka, ma potremmo facilmente immaginare lo stesso con Agnieszka Radwanska, il rapporto da junior era molto, molto stretto. Con la bielorussa dividevano i costi delle camere d’albergo quando giravano per i tornei. Ora una era numero 1 del mondo e lei rispedita lentamente indietro, magari in top-10 ma con diversi step da dover effettuare per competere con le più forti. Il fidanzamento con Rory McIllroy sembrava portare ad un’altra risposta: una sensazione di appagamento, perché in fondo stavano cambiando le prospettive, c’era un matrimonio ormai alle porte e spesso aveva dichiarato di non voler protrarsi su un campo da tennis oltre i 28-30 anni perché il pensiero vuole essere quello di costruirsi una famiglia.

Ad inizio del 2014 l’annuncio delle nozze, a metà maggio l’annuncio imprevisto della rottura con il golfista nordirlandese. Fu un vero fulmine a ciel sereno, ma quell’estate cambiò buona parte della sua carriera. Wozniacki ne uscì addirittura rafforzata, costruendosi un’immagine di donna in grado di reagire come meglio non avrebbe potuto. Al di là dei tornei giocati al massimo e dove solo Serena riusciva a fermarla (compresa la finale dello US Open), Caroline era un’altra persona, con tanto di partecipazione alla maratona di New York e la rivelazione pubblica della sua amicizia con la stessa Serena, con cui andò a festeggiare la finale di Flushing Meadows oltre a passare diverso tempo assieme durante la off season. I tanti problemi fisici del 2016 le stavano costando carissimo: se allo US Open avesse perso al primo turno contro Taylor Townsend, sarebbe finita fuori dalle prime 100 del mondo. Rimontò un set, si spinse fino in semifinale. Da lì è ripartita e può contare, quattordici mesi dopo, 10 finali e 4 titoli per un bilancio complessivo di 50 finali e 27 trofei vinti in carriera, il rientro in top-3 dopo quasi 6 anni e adesso il titolo più importante in carriera. L’ossessione chiamata Slam rimane, e rimarrà, ma da adesso, come già avvenuto negli ultimi anni per Radwanska (e perché no, anche Cibulkova, entrambe protagoniste di una finale Slam negli anni passati), quel peso potrebbe essere più mitigato dalla soddisfazione di potersi definire “Maestra”, almeno per tutto il 2018. La prima rivincita della carriera.

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