Si stava meglio quando si stava peggio, la rivincita di Murray e Djokovic

Tutti contenti per il gran ritorno di Nadal e Federer e per l'esplosione di Zverev. Ma l'annata del 2017 ha offerto livelli di competitività tra i più bassi di sempre. E Murray e Djokovic mancano terribilmente.

Ebbene sì, siamo pignoli, ci piace e vogliamo cercare il pelo nell’uovo; anche dopo un Masters 1000 finalmente vinto da quel tanto atteso campioncino che tutti decantano come il nuovo dittatore tennistico del prossimo futuro e dopo uno sprazzo di Next Generation che finalmente bussa alla porta dei piani alti.
Perché? Perché malgrado il secondo trionfo importante di Alexander Zverev, contro niente di meno che Roger Federer a Montreal, il rischio di cadere nell’ennesima nuvola di fumo è grande. E quello di voler creare fenomeni perdendo d’occhio il contesto in cui esplodono, anche.
Facciamo un passo indietro e torniamo a Febbraio, quando una finale (splendida) di un Australian Open (meraviglioso) ci aveva riportato indietro nel tempo, ai fasti del tennis che fu e dell’infinita rivalità tra Federer e Nadal che tanto metteva d’accordo tutti i tipi di esteti tennistici. Ebbene grazie a quella manifestazione di vera, eterna e rinnovata superiorità dei due fenomeni svizzero-ispanici probabilmente ci siamo forse inconsciamente illusi che l’anno che ci attendeva sarebbe stato tutto come quel singolo torneo.
Certo, nessuno vuol dire che tutti i tornei successivi siano stati delle nefandezze, ci mancherebbe, ma pian piano lungo la strada, trascinati dai nuovi successi dei due beniamini delle folle, ci siamo persi prima la competitività persino fra questi due, poi anche la competitività in generale, infine anche il bel gioco che tanto credevamo di aver ritrovato.
Magari sarà un’esagerazione ma già a Indian Wells e Miami per esempio la distanza fra Roger e Rafa si è fatta più grande rispetto a Melbourne (a favore sempre del primo) e man mano gli altri si sono fatti sempre più piccoli. Certo, restavano le brillanti prestazioni e i colpi di Roger, ma di lotta se n’è vista poca. Gli unici brividi sono arrivati dai match contro Kyrgios e Berdych, i quali, quasi come a non voler disturbare la risorta leggenda, si son spenti sul più bello.
Sul rosso poi è andata anche peggio, dato che lì si è palesata l’assoluta impotenza dei nuovi di competere persino con un Nadal trentunenne e al top della sua “attuale” forma (ben lontana cioè da quella dei bei tempi che furono) e la conferma di un Murray e un Djokovic cotti dai loro problemi. Il tutto confermato poi a Wimbledon. Lo slam sull’erba dovrebbe essere l’essenza del tennis: ha finito per essere il corollario dell’assenza non di avversari o di un tennis di una certa bellezza, bensì di pathos, di novità e di insicurezza. In soldoni: se Nadal e Federer vincono alle loro età slam non solo senza perdere un set, ma senza nemmeno dover tirare fuori conigli dal cilindro e sudare più di una camicia e mezzo, forse è lecito farsi delle domande.
La prima di tutte è dove siano finiti gli altri big: rotti, a pezzi, cotti, in preda a infortuni fisici e soprattutto mentali. Che sia il gomito o l’anca o il ginocchio, il primo infortunio dei vari Nole, Muzza e Stan sta in quella cosa che negli ultimi tempi ha finito per servire solo a dividere le orecchie.
“Riecco la storia dell’assenza degli avversari”, diranno i nostri piccoli lettori. No, gli assenti hanno sempre torto, e qui non si mettono in dubbio i successi ma il modo in cui vengono fuori e a cosa portano. Molti hanno ancora gli incubi delle finali tra Murray e Djokovic ma quello a cui siamo andati incontro non è che sia stato certo meglio. Allora almeno si assisteva a dei tornei in cui gli altri big davano l’anima e a match combattuti (anche se magari non in finale). Adesso invece siamo arrivati a guardare dei 1000 che somigliano sempre di più a dei Challenge…
Soprattutto se il resto del circuito non se la passa meglio di quelli che vanno in infermeria. A memoria è difficile ricordare una top 10 in cui ci fossero così tanti giocatori fuori forma, infortunati, in calo (soprattutto se si considera che parte di essi hanno meno di 25 anni).
Di solito poi nei periodi di bassa della vecchia guardia tendono a sorgere i giovani.
Ebbene, Zverev a parte, si muove poco o nulla. Kyrgios ormai è da psicanalisi, Tomic disperso tra una polemica e l’altra, Thiem continua a giocare a medioman e Dimitrov, beh, lasciamo perdere… Almeno Montreal ci ha dato la lietissima sorpresa Shapovalov. Vedremo se sarà stata solo una “botta e via”.
Ebbene come dicevamo in questa situazione di stallo-restaurazione (tra meno di una settimana Nadal tornerà numero uno del mondo) dovrebbero sorgere i nuovi fenomeni e la vittoria in Canada di Zverev dovrebbe essere testimonianza del nuovo che avanza.
Magari sarà davvero così, anche se è qualcosa che abbiamo sentito un anno fa a Halle, a Roma quest’anno e che rischia di ripetersi anche a New York tra due settimane. Ben inteso, il ragazzo si farà, indubbiamente, ma se il miglior risultato in un Major resta un terzo turno qualche dubbio è pur lecito.
Senza contare che i due grandi successi sono arrivati su uno dei peggiori Djokovic degli ultimi due anni e su un Federer da “ieri-ho-fatto-il-trasloco-del-vicino-ohi-ohi”… Insomma, quello che viene da chiedersi è:
Se Federer arriva in finale in un Master 1000 con la schiena nuovamente acciaccata, qual è il livello generale?
Se Zverev batte, meritatamente per carità, tal Roger, si può dire veramente che il movimento sia in salute e pronto al cambiamento?
E ancora, se tolti di mezzo i tanto “odiati” Muzza e Nole che avevano oscurato i Nadal e i Federer, ci restano tornei con (con tutto il dovuto rispetto) Haase in semifinale e slam dove il miglior match del torneo risulta essere un ottavo di finale, possiamo davvero dire che il livello sia ancora alto come un tempo?
Ci lamentavamo della monotonia dei Murray e Nole e dei giocatori fatti con lo stampino: adesso che il resto della truppa si fa avanti, non è che assistiamo a match e tornei persino peggiori?
Forse le leggende di Roger e Rafa, per quanto perennemente eccelse e fantastiche da aggiornare, ci hanno un po’ chiuso gli occhi e fatto perdere di vista il gioco, lo spettacolo dal punto di vista della competizione e quel fremito da incertezza che rende memorabili non solo singole partite ma interi tornei, nascosto da un’emozione spesso più legata a un nome, dato che il nome (questo sì, indubbiamente) conta ancora.
Il rischio più grande è vedere sorgere un nuovo campione senza sapere se lo sia per grazia ricevuta o perché effettivamente più forte degli altri e di ritrovarci con un tennis privo, oltre che di nomi, anche di spettacolo e di rimpiangere perfino i tempi in cui si stava “peggio”, anche se ovviamente speriamo di no.

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