E ora cos’altro vuoi fare, Roger?

Non importa cosa vorrà fare e cos’altro si è messo in testa, l’illusionista della racchetta. Staremo lì a vederlo, questo chimico della pallina pelosa. A chiedersi come fa a sposare gli elementi e a farli reagire. Affidando al suo gioco la gioia e il dolore.

E ora, Roger? Cosa farai? Anzi, più precisamente: cosa ti resta da fare? Hai vinto l’ottavo Wimbledon, hai riconquistato la coppa dorata tua gentile ossessione dal 2012 fino ad oggi, quel trofeo che avevi visto sfuggire per un soffio nel 2014 e 2015, strappato via da quel Djokovic, attualmente troppo impegnato a ritrovar se stesso. Hai portato l’asticella degli slam a 19, quando qualcuno lo scorso anno faceva i conti e diceva che oggi, di questi tempi, Djokovic e Nadal ti sarebbero stati alla calcagna, se non addirittura superato nel conteggio.

Sei rientrato dopo sei mesi, a 35 e passa anni, hai vinto l’Australian Open, hai vinto Miami e hai vinto Indian Wells, hai conquistato per la nona volta Halle e ora per l’ottava volta Wimbledon. Nel 2017, 25 – 0 tra slam e Masters 1000. Hai compiuto imprese nel tennis che ormai, per rendere omaggio e giusti paragoni, si devono scomodare le massime autorità sportive della storia: gli Alì, i Maradona, i Pelè, i Senna, i Phelps, i Bolt, gli Schumacher, i Merckx, i Jordan e compagnia bella.

A proposito di Air Mike: poco tempo fa, a chi scrive è capitato nelle mani un libro che parla di come è nato il Dream Team del 1992, di Jack McCallum, e in un capitolo parlava di come il numero 23 dei Chicago Bulls fosse per il mondo un termine di paragone assoluto. Essere il Michael Jordan del proprio lavoro, del proprio sport, del proprio hobby anche, se vogliamo, il massimo a cui si possa aspirare.

Ecco, forse oggi è riduttivo pensare e scrivere che Federer sia “solo” il Michael Jordan del tennis, perché in fondo, quello che abbiamo visto da gennaio ad ora, è qualcosa di unico, irripetibile, straordinario. Oltre il campanilismo, oltre il tifo. E’ solo ragione, emozione, e nemmeno questo basta, perché alla fine è l’evidenza questa volta che parli. A questo punto forse, è riduttivo dire che Federer sia “solo” il più grande tennista della storia, perché ha evidentemente e palesemente superato i confini della racchetta, dell’erba, del cemento e della terra rossa.

 

La nostra inviata Rossana Capobianco, in questi giorni mandava dei video di gente che non aspettava altro che vedere anche solo per un attimo lo svizzero. Per le scale, in strada, in allenamento. Un fascio di luce continuo, perpetuo, sulla sua testa. Un’aurea che, senza voler offendere nessuno, gli altri tennisti, seppur grandi e forti, non hanno mai avuto. Forse solo Borg, un tempo: altra generazione, altri contesti.

A proposito del tempo, Federer è riuscito a fare anche quello. Fermarlo, manipolarlo,  riportando le lancette dell’orologio del tennis indietro di dieci anni. Sia lui sia Nadal, a dire il vero. Ma Roger, vincendo due slam, si è praticamente messo in pari con il 2007, uno dei suoi anni migliori, quelli in cui ha dominato più di chiunque altro nella storia del tennis. E ora può completare l’opera, magari vincendo anche l’Us Open, realizzando per la quarta volta 3/4 di slam, come nel 2004, 2006 e appunto 2007. Con una piccola postilla però: sarebbe imbattuto, per la prima volta in carriera, nei Majors, non avendo partecipato al Roland Garros.

In questo 2017 ha pure superato, non si sa quanto definitivamente, lo scoglio Nadal, la sua nemesi, la sua terribile nemesi tennistica della sua carriera. Tre confronti, tre vittorie. Gli head to head, prima veramente impietosi, adesso fanno meno male.  L’imperioso e quasi incredibile Roger ha un’arma che si sta rivelando peggio di una bomba nucleare per gli avversari: Ivan Ljubicic. Il croato sembra un “puparo” che fa eseguire a Roger tutte le mosse giuste al momento giusto.

Dopo aver annientato Nadal con il rovescio piatto, un colpo che ha mandato in tilt per ben tre volte lo spagnolo quest’anno, contro Raonic (che Ljubo conosce, eccome) Federer si è esibito spesso e volentieri in dei passanti “morbidi”, senza peso e sulle stringhe. Risultato: il canadese è andato fuori di senno, specie i primi due set. Lo svizzero non ha dato ritmo allo spilungone sparaservizi in serie, lo ha rimbambito con palle senza specifiche, da codificare, cosa che Milos non è riuscito a fare.

E ora, dunque? E ora niente, si punta a quello che sembrava impossibile puntare e raggiungere, ovvero il numero 20. Gli Us Open il prossimo obiettivo. Difficile, ma non impossibile. Perché con Nadal che solitamente cala dopo la stagione sull’erba, con Djokovic e Murray che di fatto nemmeno sanno se giocheranno a New York, con le nuove generazioni che tardano ad arrivare peggio di Godot, tornare sul trono americano (ultima volta nel 2008) non sembra più utopia.

E poi… Bho. Magari tornare numero uno, magari vincere ancora le Finals, magari raggiungere Serena Williams in una competizione ideale degli slam vinti, magari superare Connors nei tornei. Magari, magari… Non importa cosa vorrà fare e cos’altro si è messo in testa, l’illusionista della racchetta. Staremo lì a vederlo, questo chimico della pallina pelosa. A chiedersi come fa a sposare gli elementi e a farli reagire. Affidando al suo gioco la gioia e il dolore.

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