Gli incontri dimenticati: 1920, Big Bill Tilden inaugura il suo regno

A Forest Hills, in un piovoso lunedì di settembre, nasce il mito di Big Bill. Cinque set di stordente e crudele bellezza, nei quali Tilden vinse infine l'eroica resistenza di Johnston. Con un dramma sfiorato.

A volte siamo in grado di percepire l’esatto momento in cui nasce un campione.
Si tratta di una sensazione profonda, irrazionale e irripetibile ma vera.

Chi ha avuto la buona ventura di assistere ai pallettoni arrotati dell’adolescente Borg, alle prime fatate volée di McEnroe, che ferivano senza rumore, o allo strabiliante ingresso in scena di Re Roger contro Sampras a Wimbledon 2001 sa di cosa parliamo. Quasi sempre il predestinato è un giovane virgulto con evidenti stimmate di grandezza ma quel giorno del settembre 1920 sull’erba di Forest Hills non fu così.
Il nuovo monarca della racchetta era un uomo fatto e finito di ventisette anni, che poco aveva fatto parlar di sé fino ad allora.

Gli Stati Uniti non conobbero mai la nobiltà di sangue, preferendole da subito quella del denaro e i Tilden di Philadelphia erano a pieno titolo esponenti della nuova aristocrazia.
William Tatem Tilden II nacque in casa, nella prestigiosa magione di famiglia di Germantown, il 10 febbraio 1893 ma non fu mai un uomo felice. La difterite uccide i tre fratelli nati prima di lui e con essi ogni anelito di serenità familiare. La madre Selina, il padre William senior e il fratello Herbert moriranno poi nel breve volgere di un quadriennio. Nel 1915 Bill è solo al mondo. Si chiude per mesi in casa della cugina, presso la quale vivrà sempre ed è in quel limbo doloroso che decide di dedicare la sua vita al tennis.
Il suo approccio è professionale e scientifico, gioca e scrive al tempo stesso, fissando in punta di penna ogni singolo aspetto tecnico o tattico. Nulla sfugge alla sua acuta capacità di osservazione e lui stesso sarà la cavia di questa rivoluzione copernicana. “I began tennis wrong, my strokes were wrong and my viewpoint clouded” scrive nell’introduzione di “The art of lawn tennis” del 1921, insieme al seguente “Match play and the spin of the ball” una vera bibbia del gioco.

Perché Tilden non era un predestinato, non aveva ricevuto doni celesti dagli dei della racchetta e dovette posare con fatica ogni singolo mattone per costruire la sua fortezza. Il fisico era perfetto. Alto, imponente, spalle larghe, caviglie fini da ballerino e profonda cultura facevano di lui un uomo affascinante e ricercato, “apish but attractive” ebbe a dire miss Charlene Garland.
Ma sulle prime il tennis era altro da lui. Servizio e dritto, le sue armi naturali, non furono mai sufficienti a distinguerlo negli anni giovanili e ancora nel 1919, pur raggiungendo la finale a Forest Hills, nulla poté contro la maggiore completezza di William Johnston, un grande del tennis statunitense.

Nonostante la beffarda sorte che lo volle contemporaneo  ad uno dei più grandi di sempre, questo piccolo californiano riuscì comunque nell’impresa di ritagliarsi un posto di rilievo nella storia del nostro sport, conquistando due campionati statunitensi, Wimbledon nel 1923 e la bellezza di sette Davis consecutive. Formatosi sui campi duri dell’Ovest, Johnston martellava le righe con il suo fantastico dritto liftato dall’impugnatura estrema, non aveva punti deboli e malgrado la statura era abilissimo sia nello smash che nel gioco a rete.
In quella finale chiuse Tilden nell’angolo sinistro del campo, sfruttando al massimo la debolezza del suo rovescio solo difensivo. Quella netta resa in tre set senza storia costituì il punto cruciale nella carriera di Big Bill, che capì allora di dover imprimere una svolta decisa al suo stile di gioco.

Per tutto l’inverno seguente Tilden sparisce dalla circolazione. Lontano da tutti si stabilisce a Providence, Rhode Island, dove l’amico miliardario Jed Jones possedeva uno dei pochi campi coperti del tempo. Insieme al figlio di Jones, Arnold, un promettente tennista, Bill getta alle ortiche il suo vecchio rovescio tagliato costruendosi con indefessa volontà un nuovo colpo. Al mattino spacca legna per irrobustire il braccio e per il resto della giornata colpisce migliaia di palline. Quando inizia la primavera del 1920 la metamorfosi è completa, il polso destro ora è da scalpellino e gli consente di attaccare con violenza da entrambe le parti.
Il re è pronto ma nessuno ancora lo sa.

A luglio il primo squillo risuona a Wimbledon, quando Tilden sbaraglia la concorrenza annientando in finale il detentore australiano Gerald Patterson.
È però a Forest Hills che lo attende il vero banco di prova. La vittoria di Londra non ha dissipato lo scetticismo che lo circonda, William Johnston è il beniamino del pubblico e ancora l’indiscusso numero uno nei cuori degli appassionati.

Alla vigilia dell’incontro la città è ancora scossa da quel che è accaduto tre settimane prima al Polo Ground, la casa dei New York Yankees di baseball.
All’inizio del quinto inning nella sfida decisiva contro i Cleveland Indians il pitcher di casa Carl Mays si appresta al primo lancio contro il battitore avversario Ray Chapman. Mays è un uomo scontroso e scomodo, famigerato nella lega per la tendenza a mirare al corpo degli avversari migliori quando sono al piatto. Quattro anni prima aveva deliberatamente colpito per tre volte di fila il leggendario Ty Cobb, prima che quello provasse a farsi giustizia con la mazza.
Nuvole e nebbia riducono la visibilità, la palla è sporca di terra e tabacco e come non bastasse Carl lancia con la tecnica detta “submarine”, ovvero rilasciandola dal basso dopo una contorsione estrema del busto e del braccio. Chapman è un battitore fortissimo ma forse non vede arrivare la palla, che lo colpisce sulla tempia sinistra con uno schianto simile ad un grosso ramo che si rompe. A tutta prima nessuno si accorge di nulla e quando Ray si accascia al suolo è già troppo tardi. Un fiotto di sangue sgorga copioso dall’orecchio, testimoni raccontano che la violenza del colpo aveva deformato anche la parte destra del suo cranio. “I’m all right, tell Mays not to worry” furono le sue ultime parole. Morirà all’alba in ospedale.

Anche la nostra finale sarà segnata da una tragedia.
Quando i due Bill entrano in campo nel primo pomeriggio di lunedì 6 settembre la pioggia ha smesso da poco di tempestare la città e la coltre di nubi permane minacciosa nel cielo.
Il gioco comincia in una luce lattiginosa e incerta ma il primo set giocato da Tilden spazza via ogni distrazione concentrando diecimila sguardi sul rettangolo verde scuro. Bill parte al servizio e lo tiene a zero, poi stampa due lungolinea sulla riga che gli valgono il primo break. Sta giocando ad una velocità superiore, mai vista. Servizio e dritto erano ben noti ma Johnston capisce subito che è dall’altro lato che qualcosa non va. Se fino all’anno precedente gli era stato sufficiente indirizzare lo scambio sul rovescio di Tilden per governare comodamente il punteggio, quella tattica non funziona più. Big Bill ora spara pesante anche da sinistra, con tutto il peso del corpo attaccato alla palla. Il resto lo fa il servizio, piatto o lavorato ma sempre velocissimo, imprendibile per l’avversario.
Per inciso, la battuta di Tilden venne cronometrata a 118 miglia orarie. Fate voi il calcolo e considerate che serviva con palle e racchette del 1920.
Tre aces lo portano sul 5-0, il primo set non ha più nulla da raccontare. Sono passati poco più di dieci minuti. “Tilden’s game was a triumph of super tennis” si scrisse.
Ed in questo momento di sconcerto Little Bill mostra di che pasta è fatto. Rimane concentrato, la sua tattica favorita è ormai un miraggio e deve navigare a vista ma intuisce che un simile livello di gioco non può durare.
Ha ragione.
Tilden cala visibilmente, soprattutto al servizio e nella profondità di gioco, così lui coglie il momento per spingerlo fuori posizione e attaccare nel campo aperto.
In un tempo brevissimo e ispirato Johnston si prende per tre volte il terribile servizio avversario, cede il suo ma restituisce il 6-1. Nell’ultimo gioco Tilden rifiuta palesemente, nel suo stile teatrale che diverrà ben noto, di colpire la palla. Vuole sottolineare che sarà lui ad avere il vantaggio del servizio nel terzo.

D’improvviso un rumore regolare ed estraneo distrae gli spettatori spingendoli ad alzare la testa. Nel cielo bigio si staglia la sagoma di un aereo. Ai comandi del monomotore JN-Curtiss c’era il sottotenente di marina James M. Grier, seduto dietro il fotografo dell’esercito  sergente Joseph Saxe. Erano decollati da Long Island con il compito di scattare immagini della finale dall’alto, da utilizzare poi per le campagne di reclutamento delle forze armate. L’apparecchio effettua quattro passaggi sopra il campo, ad altezze variabili fra i 300 e i 900 piedi. Al quinto qualcosa va storto, il motore collassa e l’arco di volo perde grazia. L’aereo si schianta a 200 metri dal Centrale, mancando gli spalti di pochi metri.
L’equipaggio non sopravvive, Tilden racconterà di aver sentito tremare la terra al momento dell’impatto ma quando l’autorevole giudice arbitro Conlin chiede “can you go on?” i due Bill non hanno dubbi.

Entrambi i contendenti sono ormai completamente in gioco, gli scambi si fanno lunghi e sanguinosi. Sul punteggio di 3 pari è Johnston a riuscire per primo nel break ma quando poco dopo si trova ad un solo punto dal 5-3 capisce che forse il fato gli è contrario.  40-30, scambio serrato, Tilden colpisce fortissimo un dritto che però esce basso di traiettoria, la palla sbatte sul nastro, si impenna e muore di là. Non serve altro per il pareggio. Lo scampato pericolo scuote Big Bill dal torpore nel quale era caduto al termine di quel primo set da fantascienza. La prima di servizio ricomincia a schioccare sulle righe, altri tre aces in fila gli danno il 6-5, una flessione dell’avversario il terzo pesantissimo set. Dopo la pausa di dieci minuti si torna nell’arena, Tilden sembra ormai padrone della situazione. Perde ancora la battuta per primo, recupera, tiene per il 5-4 in suo favore e si presenta in risposta per chiudere. Johnston concede i vantaggi con uno sciagurato doppio fallo e poco dopo deve fronteggiare un match point. Incredibilmente Big Bill fallisce un comodo colpo di grazia e dopo il pareggio una decisione controversa gli complica i piani. Sul 30-15 ricomincia a diluviare l’arbitro interrompe il gioco su una risposta di Little Bill. Alla ripresa il responsabile del torneo George Adee assegna il punto del 30 pari a Johnston.
Tilden urla, sbraita, non si dà pace. Per cinque minuti buoni perde il lume della ragione e di fatto il quarto set commettendo tre doppi falli furibondi.

Ma lui era una macchina perfetta e nel breve volgere di pochi minuti ritorna padrone del suo infinito arsenale di colpi e soluzioni. Johnston dopo ore di battaglia fisica e mentale contro un tennis oggettivamente superiore, nel quinto set non è in grado di resistere all’ennesimo scatto del suo avversario. Continua ad attaccare con cieco coraggio ma arriva a rete con quella frazione di ritardo che si tramuta nei pochi centimetri necessari a Tilden per passarlo con regolarità. Resiste fino al 3 pari poi crolla e un ace seguito da un rovescio out sanciscono il passaggio di consegne.
Bill è diventato grande.

06/09/1920

US Championships, Forest Hills – Finale

W. Tilden b. W. Johnston 6-1 1-6 7-5 5-7 6-3

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