16 febbraio 1959: nasce John McEnroe

Viziato, irriverente, teatrale, talentuoso, moccioso, maleducato, sbruffone, geniale, artificioso. Scegliete voi: oggi è il compleanno di John McEnroe, comunque.

“Sono stato spinto a fare qualcosa che non ho mai voluto fare veramente”. Non sono parole di Nick Kyrgios, ma di John Patrick McEnroe Jr., nato il 16 febbraio 1959, cioè 58 anni fa. Mancino, capelli ricci, magro come un chiodo, sbruffone come solo alcuni statunitensi sanno essere. Sboccato quando non ce n’era bisogno, irriverente quando il pubblico glielo chiedeva, talentuoso e vincente per pochi anni, ma quanto basta per metterlo tra i primi dieci della storia. Del resto, solo in otto sono riusciti a vincere più Slam di lui e di quegli otto, a occhio e croce, uno solo può competere in termini di religiosa adorazione. Sette Slam, diciasette in tutto e settantasette titoli in singolare (più altri settantasette in doppio). Sette come le virtù e come i vizi, verrebbe da dire, ma a McEnroe dei numeri non è mai importato troppo.

Parlare di John McEnroe senza mai averlo visto giocare nemmeno una volta – per limiti anagrafici, si capisce – è difficoltoso ma non impossibile, perché basta vederlo quando gioca nel Senior Tour per capire l’eredità che ha lasciato dietro di sé quando ha smesso di giocare tra i professionisti. McEnroe è stato per il pubblico una calamita irresistibile, un fenomeno nel vero senso del termine, perché c’era tanto interesse nel capire come e quando si sarebbe manifestato il suo smisurato talento, quanta curiosità nell’intuire perché e verso chi si sarebbe mostrata la sua folle rabbia. “Ciao John, sono Sal Palantonio di ESPN”, gli disse qualche anno fa un giornalista. “Fanculo te, e fanculo ESPN”, gli rispose McEnroe, va a sapere perché.

L’hanno chiamato SuperBrat, cioè SuperMoccioso, quando non aveva nemmeno vent’anni. Un’etichetta ridicola, che probabilmente oggi nessuno si sognerebbe di dare a nessuno e che invece a quei tempi non sembrava così ingiustificata, e tale rimase anche quando si capì che McEnroe era molto più di un eccentrico tennista. Gli rimase appicicato per anni, quel soprannome; anzi, la usano tutt’ora: in Italia, poi, chi sa davvero cosa signfica “brat”? McEnroe, al tempo stesso, conosceva molto bene i meccanismi del gioco e spesso si è trovato ad usarli a suo vantaggio. Di un’intelligenza tennistica fuori dal comune, anche fuori dal campo ha spesso dimostrato di non voler essere soltanto un uomo che era bravo a giocare a tennis.

Vinse molto, tra il 1979 e il 1984. Forse non quanto avrebbe dovuto, ma “dovere” è un verbo che non è mai piaciuto a gente come lui. Nel 1985, quando aveva 26 anni, decise che il tennis poteva fare a meno di lui, almeno per un po’. Quando tornò, un anno dopo, il tennis aveva già preso altre strade. Ma McEnroe, al contrario del suo più grande rivale, che prese atto di appartenere al passato e decise di smettere da un giorno all’altro, non si arrese allo scorrere del tempo. Quel tennis che una volta non gli piaceva, rimase parte della sua vita per altri sette anni. Furono sette anni poco intensi, in cui Johnny Mac si manifestò sporadicamente. Nel frattempo, erano arrivati gli Edberg, i Becker, i Sampras. McEnroe ci mise praticamente tre anni per tornare davvero sé stesso, ma fu nel 1992, l’ultimo anno da professionista, che tutti, proprio tutti, capirono perché quel tennista era diverso dagli altri.

Quando aveva ormai 33 anni, McEnroe giocò 18 tornei. Non arrivò in finale in nessuno di questi, ma a Melbourne rifilò un 3-0 al terzo turno a Boris Becker, attaccando costantemente la poderosa prima di servizio del tedesco. Arrivò ai quarti, perdendo contro Wayne Ferreira, dopo una sfibrante partita vinta agli ottavi contro Emilo Sanchez. A Wimbledon giocò l’ultima semifinale della sua carriera, battendo al secondo turno Pat Cash in cinque set, nell’apoteosi mai più raggiunta del serve and volley. Nei successivi tre turni non perse nemmeno un set, ma contro André Agassi, John capì definitivamente che il tennis, perfino nel tempio in cui si illudono di poter fermare il tempo, era diventato un’altra cosa. Finì con un crudele 6-4 6-2 6-3 e McEnroe, uno che sapeva fare davvero tutto, disse effettivamente: “Le ho provate tutte”. Finì l’anno da numero 20 del mondo: uno fra tanti.

La sua carriera finì ufficialmente due anni più tardi a Rotterdam, quando aveva da poco compiuto 35 anni. In singolare perse al primo turno contro Magnus Gustaffson, 6-2 7-6(5), ma la vera delusione arrivò nel doppio. Formò una coppia niente male con Boris Becker, ma i due non superarono la semifinale e McEnroe, dieci anni più tardi, scrisse nella sua autobiografia, con una punta di amarezza: “Se avessi vinto quel match e quello successivo, avrei battuto il record di vittorie nel doppio”. Dopo tutto, i numeri piacciono perfino a uno come John McEnroe.

Just because you’re paranoid doesn’t mean they aren’t after you

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