Ace Cream: Eredità Federer

L'Australian Open diventa ogni anno più grande, più comodo, più bello. Il rischio è che... resti senza Federer.

Un voto a Federer, mi chiede Giorgio di Palermo. Un voto da zero a trenta, com’è doveroso che sia, per uno che la laurea in tennis ce l’ha da un pezzo. Ventiquattro, butto lì. Posso arrivare al venticinque per non rovinargli la media. Giorgio mi dà ragione. Non più di venticinque. Il che significa due cose, ammesso che si tratti di un voto onesto. Siamo ancora lontani dal trenta, lontanissimi dalla lode, ma c’è spazio di crescita. O di ricrescita, dato che il nostro non è davvero di primo pelo.

Vedremo nei prossimi match. Gli auguro che possa trovare per strada, vincendo, quei colpi, quelle sensazioni, quelle sicurezze, che il lungo periodo trascorso in officina ha di certo appannato. Mi chiedo, però, se al momento conti davvero così tanto come giochi Federer, se benone o benino, o magari così così… Sinceramente non credo che sia questo l’aspetto centrale, il valore aggiunto della sua rentrée. Mi è apparso più importante, e in linea con i desideri del gentile pubblico pagante, il fatto che un Federer vi sia, comunque. Che abbia ripreso il suo posto. E credo che da esso, e da ciò che rappresenta, dipenda assai più di quanto non si voglia far credere.

Provo ad allargare la riflessione, e tento di farmi capire… Di mattina presto (se mi permettete di considerare tali le 8,30), ero qui che guardavo l’impianto, in attesa di Francesca Schiavone con cui ero d’accordo di scambiare quattro chiacchiere prima della sua partenza. Sgombro della canizza che si forma nelle ore dei match, Melbourne Park mi è apparso come un paesone assopito, ancora più grande di quanto davo per scontato che fosse. L’isola dei bambini senza le rotture di scatole che comporta, le zone appena rifatte dietro la Hisense Arena, la vecchia struttura della sala stampa che sta per lasciare il posto a un’avveniristica porta a forma di astronave che diventerà l’accesso principale alla Rod Laver Arena. Ogni anno l’organizzazione australiana propone novità, cambiamenti, rifacimenti, migliorie. Lo fa con passione infinita e credo abbia ormai messo in piedi il miglior torneo possibile, svariati passi avanti rispetto agli altri Slam, che pure non mancano di strutture, di fascino e di metri quadrati.

Siamo nella città del tennis, e mi chiedo se le cronache televisive riescano a darvi appieno le dimensioni di un torneo così grande. Vi vengo in soccorso: dal campo numero 28 al campo numero 15, che sono ai due lati estremi dell’impianto, occorrono 25 minuti buoni di camino a passo spedito (per me non meno di 40). L’impianto è lungo quattro fermate della metropolitana, se vi va di prendere in considerazione una simile unità di misura. Conta oltre trenta ristoranti. Nella zona dei bimbetti, un casino che non vi dico, lavorano a turno trecento maestri di tennis. Vi sono tre stadi con il tetto e altri due show court con tribune per oltre cinquemila spettatori. E la piazzetta degli sponsor ospita un festival del rock che dura quindici giorni interi.

C’entra tutto questo con Federer? Certo che sì. La qualità del suo tennis, e quella del suo primo avversario, Rafa Nadal, hanno fornito nell’ultimo decennio la via più diretta per dare forma allo spettacolo, perché questo vende il tennis prima ancora che vittorie e sconfitte, o campioni, o record. Lo sport, e l’industria dello sport, se vi va di annotare la distinzione, nemmeno tanto sottile. Ma con Roger e Rafa, era tutto facile… Andate e fateci godere, bastava questo. Grazie a loro il tennis ha vissuto anni di popolarità straripante e ha investito sulle sue strutture. Melbourne Park ne è l’esempio più lampante. Mi chiedo però se lo abbia fatto anche sulla qualità (tennistica, recitativa e comunicazionale) dei futuri cast che dovranno proseguire lo spettacolo. E su questo ho qualche dubbio. No, sbagliato… Ho molti dubbi.

Federer, gentilmente, concede al tennis ancora qualche anno. Lui dice tre, io lo spero. Come intendiamo sfruttarli? Questa è la domanda… Certo non proseguendo nel programma di omologazione dei futuri giocatori, se vogliamo evitare di avere spettacoli con 128 comparse. O peggio, 128 sosia. E non è vero – non fate l’errore di crederci – che il tennis (o in genere, lo sport) abbia sempre rimediato ai suoi periodi più critici scovando nuovi campioni. Certi discorsi andavano bene quando le dimensioni economiche dello sport erano più ridotte. Investimenti miliardari come quelli degli Australian Open richiedono un pubblico (e relativi incassi) sempre in aumento.

Melbourne ha segnato 720 mila spettatori l’anno scorso e ha lavorato per arrivare rapidamente a 800 mila. Pensate davvero che un periodo più critico, privo di grandi attrattive, segnato da un calo di spettatori fra le 100 mila e le 150 mila unità, possa essere agevolmente sopportato? Vi illudete. Tre anni fa, la sola ipotesi che Melbourne non fosse in grado di migliorare i numeri del suo business aveva scatenato le mire della Cina e degli Emirati, che chiedevano di subentrare nella guida dello Slam. E la stessa amministrazione del Victoria State non ha mai negato che se gli investimenti concessi al tennis non avessero dato i frutti sperati, gli impianti realizzati sarebbero stati destinati ad altro tipo di eventi.
Senza Federer non c’è tennis, diceva uno striscione issato nel giorno del suo rientro. Era una scritta di bentornato, e di devota ammirazione. Ma ineccepibile, conti alla mano… Ed è questa la sua difficile eredità.

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