La forza di Djokovic, le colpe di tutti gli altri

TENNIS – QUIET PLEASE!- Di ROSSANA CAPOBIANCO –  Da molte settimane ormai, sempre di più, si parla della presunta (o reale) assenza di avversari per Novak Djokovic che oggi ha più del doppio dei punti in classifica del secondo, Andy Murray. Il numero uno ha la “colpa” di essere troppo forte per gli altri? Certamente no. Gli avversari hanno la responsabilità di non riuscire a competere? Spesso no, molte volte sì. Ma per trovare le vere colpe, se colpe esistono, bisogna tornare indietro.

Sedicimilacinquecentoquaranta. E’ questo il numero impressionante di Novak Djokovic, quello che sta accanto al suo numero uno in classifica. Sono i punti che appartengono a lui, tutti guadagnati, tutti sudati, tutti meritati. Ancora più assurdi se si guarda a quelli accanto al numero due del mondo, Murray: 7815. Quasi novemila punti di distacco: un dominio chiaro, lampante; se chiudi gli occhi e provi ad ascoltarlo, assordante. Fa troppo rumore, settimana dopo settimana, trofeo dopo trofeo, risposta dopo risposta, rovesci dopo rovesci.

Un dominio che però, a quanto pare, non piace a tutti. Un dominio che rischia di togliere suspence al tennis maschile, di renderlo troppo prevedibile, di spogliarlo della sua natura competitiva. Urge un vero rivale, almeno uno. Meglio due. Qualche sorpresa. Giovani; presto, giovani, che il tempo fugge!
Si fa in fretta a dividersi: d’altronde cos’è lo sport se non prendere parte emotiva ad una contesa? Non v’è nulla di male nello schierarsi. Neanche, però, nel tentare di capire le cause che hanno portato a questo dominio.

Innanzitutto, la forza di Novak: Roger Federer che si sa, rispetta ma non ama molto il serbo, ha avuto l’onestà intellettuale di dirlo, un anno fa: “Non c’è nessuno che si sia voluto migliorare -e ci sia riuscito- come Djokovic, nessuno negli ultimi cinque/sei anni”. Ed è tremendamente vero. Quando Nole assunse Boris Becker sotto i baffi o con la nostra manina a voler nascondere ma non troppo, ridacchiammo tutti della scelta che parve senza senso. Non sapremo mai con certezza e precisione quanto il tedesco abbia influito nei miglioramenti del serbo ma è certo che da allora abbia vinto moltissimo, rafforzando prima e seconda di servizio, concentrandosi 365 giorni l’anno sul tennis, mettendo da parte familiari ingombranti e chiacchieroni, battendo i rivali principali. Da allora è iniziato il suo Regno, adesso nel pieno del suo splendore. Forza dunque indiscutibile, livello non raggiungibile dai suoi avversari al momento: atletico, tecnico, tattico. Sicuramente anche professionistico, perché la vera base della forza di Djokovic risiede nell’essere questo, soprattutto. Successe a Roger Federer, quando nel 2004 raggiunse un livello talmente elevato per i propri avversari da non riuscire a fermarsi più. A Djokovic è accaduto dopo, un po’ perché tutta questa fame e comprensione è arrivata con la maturità e la consapevolezza di sé e anche perché Federer, Nadal e Murray non hanno mai mollato. Fino a poco tempo fa, almeno.

E allora perché il dominio di Federer -dai più, non certo da tutti- veniva vissuto come una benedizione e questo come paura di agonia? Il seguito è tifo, passione, non per forza ragione. Ci sono tuttavia delle componenti razionali e oggettive: Roger Federer ha sempre giocato un tennis “diverso”. Che naturalmente può appassionare o meno, però è indiscutibile che la varietà di gioco dello svizzero, la spettacolarità e l’estetica del suo tennis hanno in qualche modo “edulcorato” quel dominio, durato molto ma non sempre scontato come appare oggi quello di Nole. Da metà 2005, infatti, un certo Rafael Nadal si affacciava al tennis e creava, anno dopo anno, una sfumatura poi divenuta realtà drammatica e per questo umanamente bellissima. Una rivalità creata non soltanto dal confronto di stili ma anche dal paradosso del più completo e più “eletto” che perde quasi regolarmente contro la sua nemesi.

E’ questo che manca al dominio di Novak Djokovic, queste componenti che, a torto o ragione hanno cambiato il tennis degli ultimi anni e hanno abituato “male” gli appassionati. E sull’uscio si intravede poco o nulla. E’ palese che ci sia una componente tecnica piuttosto importante come causa di quello che sta accadendo nell’ATP negli ultimi anni. Giocano tutti lo stesso tennis e a giocare questo tennis Djokovic è senza dubbio il migliore. Il più atleta, il più professionista, il più intelligente. Non a caso i due che lo hanno messo in difficoltà più spesso e volentieri sono Federer (solo 2/3 e su superfici veloci) e Wawrinka (solo a Parigi in una delle sue migliori giornate) che giocano un tennis diverso. E’ la diretta conseguenza della standardizzazione tecnica “promossa” dalla stessa ATP che parte con l’omologazione delle superfici e dei materiali. Maggiore è l’omogeneità delle condizioni, minore sarà l’effetto sorpresa: questa è la realtà sempre più definita degli ultimi dieci anni di tennis. La conseguenza la si paga nell’approccio dei giovani al tennis e nel modo di costruirsi.

La prova di ciò arriva nel momento in cui il numero uno del mondo compie quasi quaranta errori gratuiti e “solo” sei vincenti: quella partita la vince in due set e non contro il numero 100 in classifica ma contro Dominic Thiem, da tutti considerato uno dei giovani più promettenti, malgrado l’età non sia più tenerissima e i risultati siano arrivati da poco. Cento furono i gratuiti agli Australian Open contro Gilles Simon per Nole, partita che vinse comunque: l’avversario semplicemente non ha armi “diverse” per contrastarlo.

Non è colpa di Djokovic e del fenomeno che è. Non è colpa del suo lavoro duro e del suo professionismo; non è colpa di Federer e di Nadal che, causa età avanzata o logorii fisici, calano. Non è colpa di chi non ha il talento del serbo. E’ colpa di un sistema che ha valutato male le scelte da fare e che oggi fatica a far trionfare una competitività necessaria per la sopravvivenza dello sport.

Novak Djokovic merita dei rivali: per migliorarsi ancora, per dare lustro al suo talento, per dimostrare ancora e ancora, per le motivazioni e per poter divertirsi.

 

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