Quiet please!: Federer e lo stagno delle abitudini

 

 “Perché può nascere da un male oscuro, che è difficile diagnosticare, tra il passato appeso e il futuro, lì presente e pronto a scappare”.

Il destino di Roger Federer è tutto qui, in una frase di una canzone di Guccini del 2004 (album Ritratti, ndr ). O almeno piace immaginarlo così. Romantico, come l’ultimo degli eroi sportivi moderni.

La serena rassegnazione sul volto di Federer durante il terzo set del match contro Tommy Robredo è quella di chi ha capito cosa stia succedendo, ma non riesce a trovare la chiave di volta perché non accada: eppure ci prova. Vuole fortissimamente provarci.

La conferma la si è avuta in conferenza stampa: «Ho ucciso me stesso, mi sono battuto da solo. Con tutto il rispetto per Robredo che ha giocato una bellissima partita, è andata così. Ho combattuto contro altre cose nella mia testa durante il match».

Parole oneste, nessuna scusa. Estrema lucidità, che in campo ormai si vede soltanto in rare occasioni. Rimane da capire cosa siano queste cose contro cui Roger ha combattuto, oltre a Robredo, nel corso del suo ottavo di finale a New York.

Ma andiamo con ordine.

 QUELLA MALEDETTA SCHIENA

Innanzitutto, per quasi l’intera stagione fin qui, ha combattuto contro dei problemi fisici alla schiena che non ha voluto quasi accettare: difficilmente si è fermato e anzi, ha perfino voluto forzare, sbagliando. Di questo si è accorto come dei cambiamenti naturali di necessità, come ha egli stesso confermato: «Da giovane bastava scaldarmi per poco, avrei potuto fare quattro saltelli ed entrare in campo senza problemi. Ora devo almeno scaldarmi per mezz’oretta buona e fare un maggiore lavoro di stretching; anche con la schiena, che è sempre stata un mio punto debole fin da juniores: prima il dolore andava via in una notte, adesso rimane decisamente più a lungo». Per uno orgoglioso e parecchio abitudinario come Federer, non deve essere stato semplice prendere consapevolezza e accettare tutto questo. Alla fine, pare averlo fatto ed essersi perfettamente adeguato. Provato nuovi esercizi che –pare- abbiano dato risultati positivi in tal senso.

Ma una cosa non è cambiata, e per questo forse ci vuole molto più tempo: la sfiducia. La mente appannata dalla paura di ricadere nel dolore o semplicemente la recente abitudine a non riuscire a giocare il suo miglior tennis. Ecco, queste sono le cose, i pensieri e le ossessioni con cui Roger potrebbe avere combattuto sull’Armstrong l’altra sera. Mentre Robredo non si chiedeva perché e incassava tutto, come fanno i giocatori veri.

COME SI CAMBIA PER NON MORIRE

Analizzando la lunga e gloriosa carriera dello svizzero, ci si rende conto che, nonostante la manifesta superiorità e gli incredibili record raggiunti ci sia sempre stato, seppur in maniera ridotta, un momento di appannamento o di grande difficoltà che ha dato seguito a importanti cambiamenti.

Cambiamenti che la maggior parte delle volte hanno significato una cosa ben precisa: il cambio di allenatore. Ora, senza voler risultare irrispettosi e senza pretendere di conoscere la situazione nei dettagli, dall’esterno questa domanda è legittimo porsela: Federer ha bisogno di cambiare?
Il rapporto con Paul Annacone è più intimo e solido che mai, non sono soltanto legati da un patto professionale. Sono amici, confidenti, si stimano e rispettano e lo statunitense è molto legato anche alla famiglia dell’elvetico. Forse, Peter Carter a parte (quasi un padre negli anni dell’adolescenza), Federer non ha mai avuto un legame così stretto con un allenatore.

E intendiamoci: Annacone è un grande professionista e con Roger ha lavorato benissimo, convincendolo anche ad un approccio più aggressivo. Non c’è dubbio che stia lavorando bene anche adesso, ma il punto è: Federer riceve ancora questi stimoli o si è assuefatto ad un circolo vizioso negli ultimi tempi? Se così fosse il circolo va spezzato, e niente meglio di un cambiamento, di aria nuova, di nuove figure può farlo. 

Con lo stesso Peter Carter, lo sfortunatissimo australiano che lo conosceva fin da quando Roger aveva dodici anni, ha faticato a staccarsi: ad un certo punto, pur di non sentirsi slegato da quel rapporto, lo aveva affiancato a Peter Lundgren, arrivato quando di anni Federer ne aveva circa 18. Resosi conto della naturale incompatibilità delle guide, disse addio al suo mentore che avrebbe portato nel cuore per sempre, e che avrebbe poi avuto anche il merito (seppure tragicamente involontario) di svegliare il suo pupillo dal torpore e dalla frustrazione del talento inespresso, attraverso la sua terribile dipartita.

Nel 2004, quando raggiunse la vetta mondiale, ebbe il coraggio di dire basta a Lundgren, che lo portò dall’essere un promettente campioncino a un cannibale, migliorando molti aspetti tecnici del gioco di Roger. Il rovescio (backspin e topspin) per esempio, costruendo insieme a Pierre Paganini una base di tipo fisico che portò lo svizzero a sviluppare un naturale footwork capace di farlo danzare sul campo e sfruttare il colpo micidiale naturalmente posseduto: il dritto, da ogni angolo del campo. Poi ci fu Roche, e, tralasciando l’infelice parentesi Higueras (che però vinse pure uno Slam nel 2008 con Federer) Paul Annacone, dal 2010.

Da qualche parte nel suo intimo Roger ha capito che qualcosa da cambiare c’è: ci ha provato con la racchetta –e probabilmente lo rifarà- beccando pure la sfiga di farlo nel bel mezzo di un brutto risentimento alla parte bassa della schiena; Federer ha detto di stare valutando cosa fare al momento, se giocare di più o per niente, valutare il modo di riuscire a venire fuori da questi “disturbi” sul campo che lo portano ad un masochismo tennistico non indifferente, come quando aveva 19 anni e fu aiutato da uno psicologo sportivo.

Ma chissà che la chiave non sia quello che Roger, forse, non osa pensare. Annacone forse sì, vista la faccia perplessa e preoccupata dell’altra sera, come a dire: «A cosa è servito tutto l’allenamento delle scorse settimane?».

BRUCIA ANCORA LA PASSIONE

Chi parla di ritiro, concludendo, non conosce Roger Federer e la sua storia: non ha mai abbandonato un campo da tennis a partita in corso, nemmeno con gravi defezioni fisiche. E non lo farà con il tennis finché sentirà ancora la voglia di giocare e sacrificarsi. Le legittime reazioni di tifosi e addetti ai lavori alle sue sconfitte sono molto più “fighette” di quanto lo sia in realtà Federer, spesso accostato ad atteggiamenti da narcisista e tennista perché possessore di solo talento. Come chiunque, ha il diritto di decidere per sé: ogni opinione è rispettabile, ma l’umanissima volontà dello svizzero è un segnale forte che vuol disintegrare tutte le idee divine che si son costruite negli anni per lui e che portano a queste reazioni onestamente esagerate per un trentaduenne sul circuito da ben 15 anni, che ancora va cercando legittime soluzioni.

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