Quelli che..ci fanno qui?

Dall’inviato a Parigi Daniele Azzolini.

Ci sono quelli che non c’erano più, e poi ci sono di nuovo. E quelle… Uno è Robredo, un’altra è Svetlana. Un terzo, di certo, è Tommy Haas.

Lei, la Kuznetsova, vive in una dimensione parallela, da mago Copperfield, o da Oudini se solo ne avesse le misure, e l’elasticità. Scompare, torna, si fa di nebbia, nuovamente. Giochi di prestidigitazione, o semplice istinto vitale? Le russe dicono che al momento giusto lei c’è sempre, riappare come una madonna operaia, tosta di muscoli da catena di montaggio (o di smontaggio, secondo il punto di vista delle avversarie che batte).

 

Ma vai a sapere quali siano i momenti giusti in una carriera. Lei, la Kuznetsova, ne ha colti due, uno Us Open che la lanciò nel gran mondo (ed era il 2004, dieci stagioni fa) e un Roland Garros nel 2009, salvo andare in contro tendenza con la classifica, che la vide seconda nel 2007, dopo una finale allo Us Open dispersa contro Justine Henin. Ma non saprei dire quanti ne abbia smarriti. Poteva essere grandissima, ne sono convinto, perché nata in un periodo in cui tutto ciò che veniva dall’Est, nel tennis femminile, andava a Bingo, e perché formidabile anche in doppio, a ribadire come le sue qualità tennistiche spazino su una gamma più alta di quella cui possono aspirare la gran parte delle contendenti. Ma non è tipa da farsi venire il sangue amaro per il tennis, la Kuz. E anche questa è un’altra delle voci che gira su di lei. Svetlana segue le proprie voglie, non ha bisogno di stupire, ma ogni tanto ama esserci, e quando c’è, normalmente arriva in alto. Ai quarti del Roland Garros, in questo caso, tostando al terzo la Kerber, che per fattezze (giro coscia, pettorali, deltoidi, punto vita e gluteo) potrebbe essere la Kuznetsova del secondo decennio.

Quelli che non c’erano e ora ci sono, invece, generalmente si chiamano Tommy. Del primo, Haas, lo sapete. Le cronache sono di ieri e raccontano di come sia possibile farsi annullare dodici match points e poi vincere al quinto… Il tedesco che “vuò ffà” l’americano ha un volto da comparsa hollywoodiana, è amico di Schwarzenegger, marito di Sarah Foster, una delle attrici di Csi qualcosa, forse Miami. Simbolo di un tennis che non vuole tramontare. Anni 35, numero due undici stagioni fa, subito dopo la sconfitta nella finale di Roma, era il 2002. Uno al quale la terra rossa ha sempre sottratto qualcosa. Un punto, una soddisfazione, una certezza. Nel 2009 fu a un millimetro dal battere Federer, nell’anno che avrebbe consacrato lo svizzero anche nel torneo rosso. In effetti, la sua palla finì di un millimetro fuori, quella di Roger un millimetro dentro, e il match si ribaltò. Stavolta, però, gli stanno tornando indietro un po’ delle fortuna smarrite: ha ingaggiato battaglia con Isner, il lungo pivot delle lunghe maratone (indimenticabile quella di quasi undici ore a Wimbledon contro Mahut, nel 2010, finita 70-68 al quinto), e nel tie break del quarto set ha giocato dodici match point, l’uno sull’altro. Perderli tutti, come ha fatto, aprirebbe un baratro di depressione sotto i piedi di tutti i protagonisti del tennis, ma lui, che per metà è di celluloide, ha tenuto duro, evitando di uscire di testa. L’esperienza gli ha dato una mano, e ha chiuso 10-8 al quinto, dopo 4 ore e 38 minuti.

L’altro Tommy, fra tutti, è quello che più sorprende. Robredo era semplicemente finito, due anni fa. Un po’ per via dell’età, oggi 31, un po’ perché la classifica appariva già in discesa, ma soprattutto a causa di un infortunio (gamba sinistra) che lo tenne in lungodegenza a farsi il sangue amaro. Da ottobre 2011 a giugno 2012, tanto per dire. «Ci provo ancora per un anno», disse agli amici. E tornò bambino, a ruzzare con i Challenger, a vincere i match stenti, a farsi battere da chi non aveva nemmeno osato sperarlo. Debonis, Bautista Agut, Kubot… L’anno non è finito, e Tommy ha ripreso quota (34, in classifica, lui che fu fra i primi cinque) e coraggio. È nei quarti di uno Slam, e l’impresa non gli riusciva dal Roland Garros del 2009.

Ha pianto Tommy Robredo, quando la palla di un Almagro goffamente proiettato a rete si è schiantata sul nastro. Altri cinque set, ma il risultato vale lo sgobbo cui è stato costretto. Due set di svantaggio, poi una vittoria che lo rilancia a pieno. Ci stanno, le lacrime. E ci sta la festa che gli ha tributato il pubblico del Suzanne Lenglen. Il torneo non dimentica i suoi campioni. A Parigi non succede come da altre parti.

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